UNI 11248

Nuova direttiva per la Legge E. R. contro l’inquinamento luminoso

La nozione di “inquinamento luminoso” spesso viene confusa con quella di “inquinamento luminoso astronomico”, che rappresenta solo una parte del problema e che definisce la riduzione della capacità di osservare i corpi celesti.
Fortunatamente ci sono Leggi, come la L.R. Emilia Romagna 19/2003, che cercano di affrontare il problema in maniera completa.
Negli ultimi anni ho partecipato attivamente al gruppo di lavoro che si è occupato di aggiornare la Legge di cui sopra e che ha portato alla recente pubblicazione della nuova Direttiva applicativa (BUR n.355 del 29/11/2013).

Non nascondo il fatto che sono estremamente soddisfatto per il lavoro svolto – anche se, da buon perfezionista, credo ci sia ancora molto da fare – ed in particolar modo sono felice che una legge di questo tipo per la prima volta si basi su indicazioni tecnico-scientifiche, anziché presentare numeri – per così dire – “tirati fuori dal cilindro”.
A cominciare dalla definzione stessa di inquinamento luminoso, che comprende la nozione di “inquinameno luminoso astronomico” vista prima e la nozione di “inquinamento luminoso ambientale”, inteso come luce artificiale che si disperde al di fuori delle aree a cui è funzionalmente dedicata, è emessa in misura maggiore alle reali necessità ed induce effetti negativi sull’uomo e l’ambiente. Per ulteriori approfondimenti su questo argomento, vi rimando alla presentazione sull’ inquinamento luminoso che ho portato al convegno Illuminotronica.

Senza entrare troppo nei dettagli – per cui rimando alla lettura del testo della Direttiva – riassumo brevemente le principali novità:

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Luce e follia (Cieli bui e UNI 11248)

Ottobre sarà ricordato – fra le altre cose – come il mese della legge di stabilità e del decreto “Cieli bui” che già ha infervorato le piazze e i maggiori talk-show italiani.
Pochi però sanno che, nello stesso momento in cui si parlava di ridurre o addirittura spegnere le luci nelle città per risparmiare qualche euro, veniva dato alle stampe l’aggiornamento della norma sull’illuminazione stradale (UNI 11248:2012) che fa da contraltare alle intenzioni del Governo e prescrive illuminazioni più alte di circa il 50% rispetto alla versione precedente.

Devo ammettere di aver sempre apprezzato il teatro dell’assurdo e, proprio in questi giorni, stavo pensando se l’inutilità dei nostri politici e – di rimando – delle istituzioni ad essi legate, non fosse in qualche modo un sottile stratagemma per trasformarci tutti in “rinoceronti” (tanto per citare un’opera a tema): e appunto, come nel testo di Ionesco, mi domandavo se anziché ostinarmi a rifiutare il qualunquismo imperante dovrei invece uniformarmi alla massa.
Purtroppo, anche in questo frangente, mi sento solo: c’è qualcun altro che pensa che questa sia pura follia?

Certo, lo so, viviamo nello stato delle banane.
Che colpo di teatro! Viene approvato un decreto che spegne le luci perché ormai i Comuni sono in braghe di tela e di contro esce una norma (quasi in contemporanea) che innalza la quantità di luce richiesta. Ovvero: ci sarà più luce di notte, ma per meno tempo. Poi tutti al buio.
E quindi il risparmio prospettato dal Governo viene nullificato sul nascere da una norma voluta da un’emanazione del Governo stesso.

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Illuminazione stradale a LED – 3^ parte

Illuminazione stradale LED___________________________________________________________________________________________________________________________ A

ncora una volta torno a parlare dei LED. Magari direte che sono fissato.
Eppure ho sentito il bisogno di scrivere ancora perché ci sono tante novità riguardanti questa tecnologia e la sua applicazione sulle strade.
Ormai molti impianti di prova che hanno superato i 3 o 4 anni ed è quindi possibile valutare le aspettative di vita confrontandole con le varie problematiche emerse, come rotture ed inefficienze; inoltre, a partire da quest’anno, incominciano ad affacciarsi sul mercato prodotti che dimostrano un buono sviluppo tecnico ed elettronico e che danno ampio spazio a margini di miglioramento nella parte fotometrica.
Un’altra notizia è quella che – chissà come mai – delle migliaia di ditte che si sono affacciate sul mercato per presentare questi prodotti ne sono sopravissute poche e le poche rimaste sono costituite al 95% da chi l’illuminazione già la faceva da tempo.
Il tutto a dimostrare la tesi ormai consolidata che questa tecnologia è stata presentata sul mercato con almeno 3 anni di anticipo sulle sue reali possibilità e questo anticipo sta rischiando di bruciare l’espansione di questa tecnologia sul nascere.

1) Il consorzio Zhaga per la standardizzazione dei LED

Per molti di voi la standardizzazione degli apparecchi LED sembrerà l’ultimo dei problemi, ma quante volte avete lanciato contro la parete l’ennesimo carica-cellulare con una presa diversa dalla versione precedente dello stesso telefonino? Oppure avete inveito contro i produttori di pneumatici, quando siete venuti a sapere che la vostra versione di battistrada è quella più rara e per questo dovete pagare un treno di gomme 400 euro in più di tutti gli altri?
Ecco, moltiplicate il tutto per le centinaia di euro che servono per la manutenzione degli impianti di illuminazione e potete avere un’idea di quello che è il costo attuale della varietà pressoché infinita di apparecchi a LED sul mercato, pochissimi dei quali sono intercambiabili o comunque hanno parti comuni con altri.
Perchè possiamo incrociare le dita e sperare che tutto vada bene, ma nel malaugurato caso in cui ci sia la necessità di cambiare un apparecchio LED dopo qualche anno dall’acquisto saremmo proprio nei guai: nel migliore dei casi la ditta non produrrà più l’apparecchio con caratteristiche simili a quelli già installati (basti pensare ad esempio che una delle marche più note, la RUUD, è già alla terza generazione in meno di quattro anni, con la prima generazione già fuori commercio e completamente rivisitata); nel peggiore dei casi la ditta sarà scomparsa dal mercato (vedi la nota in apertura) e occorrerà mettere “una pezza” di qualche tipo per non dovere cambiare per intero tutto l’impianto.
E anchese se non dovessimo cambiare per intero l’apparecchio le difficoltà sono sempre tante: ad esempio non esiste una tipologia unica di alimentatore per moduli LED e quindi se questo si rompe (e si rompe, fidatevi) occorre rivolgersi alla ditta produttrice del corpo illuminante per avere il pezzo di ricambio, senza la possibilità di sostituirlo con prodotti similari; per non parlare dell’impossibilità di organizzare una scorta di magazzino, poiché ogni ditta utilizza un alimentatore diverso dall’altro e quindi, a meno che non si voglia illuminare un intero Comune tramite “monomarca”, occorrerebbe avere in scorta almeno un paio di alimentatori diversi per ogni tipologia di apparecchio installato.
Come potete ben immaginare, questo significa porre un macigno alle eventuali economie di mercato e legare in maniera vincolante gli acquirenti ai produttori (vi siete mai chiesti perché non esiste ancora una presa “universale” per telefonini?).

Per porre un freno a questa “moltiplicazione infinita” e avvicinare la tecnologia LED a quella che è la standardizzazione già presente sul mercato è stato creato il consorzio Zhaga, di cui fanno parte anche Acuity Brands Lighting, Cooper Lighting, OSRAM, Panasonic, Philips, Schréder, Toshiba, TRILUX, Zumtobel Group e che si occupa di fornire una standardizzazione per le interfacce dei cosiddetti “LED light engines”: in pratica il consorzio vuole mettere a punto una base comune definita da 5 interfacce (supporto, alimentazione, controllo, fotometria e dissipazione) standardizzate su cui poi potranno inserirsi i vari “motori” LED.

Le 5 interfacce proposte da Zhaga

Per lavoro verifico circa una decina di apparecchi a LED al mese e non sapete la fatica nel catalogare e confrontare le varie soluzioni: perché alcuni sono alimentati a 350mA, altri a 525mA, altri ad altre correnti e quindi hanno emissioni, temperature di funzionamento e curve di decadimento completamente diverse fra loro. Per non parlare della temperatura di colore, della capacità di dissipazione o delle perdite dovute poi all’alimentatore. Non esiste in pratica la possibilità di confrontare direttamente i prodotti fra di loro e l’unica soluzione è effettuare almeno un paio di calcoli illuminotencnici su strade tipo per vedere se l’apparecchio è buono oppure no (ma anche in questo caso la scelta è quanto mai variegata, perché non avendo la possibilità di regolazioni con slitta come gli apparecchi a scarica, ogni apparecchio LED va bene unicamente in determinate soluzioni ed è completamente inutile in altre, senza possibilità di avere l’elasticità necessaria a coprire le varie esigenze).

Il lavoro svolto dal consorzio Zhaga fa quindi ben sperare, non solo perché è partecipato da tutte le più grandi aziende del settore (e quindi ha un certo peso nelle decisioni riguardanti lo sviluppo dei prodotti di illuminazione), ma anche perchè – finalmente – non si avranno più prodotti a 3650K o 4215K, ma con temperature di colore standard, oppure moduli che emettono 5213lm e via discorrendo, ma emissioni scalate e univoche, e così via. Questo renderebbe sicuramente più facile la scelta del prodotto, ottimizzerebbe i costi di manutenzione e sostituzione e diminuirebbe notevolmente i costi di produzione e commercializzazione.

2) Manutenzione, luce bianca e tante bufale

Come si suol dire, prima o poi tutti i nodi vengono al pettine.
Quante volte ho richiamato l’attenzione sul mancato utilizzo dei corretti coefficienti di manutenzione nei calcoli illuminotecnici con apparecchi a LED oppure sull’uso errato e pericoloso della cosiddetta “declassificazione” dovuta alla luce bianca? Tanto più che, mentre per la manutenzione in effetti non esiste una legge che la regolamenti, per la luce bianca in Italia abbiamo l’unica norma al mondo che consente uno sconto oltre il 25% nella luminanza a terra per strade con traffico motorizzato (tutte le altre normative, quando lo consentono, prevedono uno sconto unicamente per strade pedonali o a traffico misto).
Mi chiedo inoltre perché nella norma non si parli semplicemente di tecnologie con Ra>60 o Ra<60 (discriminazione fra “luce bianca” e non) oppure di tecnologie con Ra<20 (assenza totale di discriminazione cromatica), ma tecnologie con Ra>60 e tecnologie con Ra<30 (perchè se fosse stato solo Ra<20 ovviamente non sarebbero state ricomprese le sorgenti a sodio alta pressione).

– Il corretto coefficiente di manutenzione

La norma di riferimento a questo proposito rimane la CIE 154:2003 – “The maintenance of outdoor lighting systems”; mentre fino a poco tempo fa esistevano pochissime indicazioni riguardo la corretta applicazione di tale norma (tranne ovviamente il mio sito 🙂 ), oggi cominciano a comparire anche su internet le corrette metodologie di calcolo.
Fra questi vorrei citare la brochure di SITECO e il libretto sull’efficienza dell’illuminazione pubblica pubblicata dall’agenzia per l’energia portoghese.
In realtà non può esserci una vera e propria normativa riguardante il coefficiente di manutenzione, poiché nessuno può imporre una tempistica riguardante i cambi lampada o la sostituzione dei dispositivi: la decisione su durata e manutenzione deve essere fatta in base alle economie possibili e di comune accordo con il gestore/manutentore dell’impianto e quindi nessuno vieta di cambiare ad esempio le lampade ogni anno, con coefficienti più alti, ma questo comporta anche costi molto alti.
D’altra parte il piano di manutenzione è sempre obbligatorio (si veda il DPR 554/99, art 40) e pertanto non è neppure corretta la presentazione di coefficienti di manutenzione “calati dall’alto”, così come si vede nel 90% dei progetti illuminotecnici, senza una coerenza fra soluzioni manutentive e coefficienti utilizzati.
Solo una volta definito il piano manutentivo, è possibile capire quali coefficienti adoperare.

Il calcolo del coefficiente deve essere basato sulle caratteristiche dell’apparecchio, sulle condizioni del sito di installazione e sul piano di manutenzione programmato, secondo la seguente formula:

Il fattore di deprezzamento del flusso luminoso (LLMF) indica la riduzione del flusso della sorgente luminosa nel tempo.
Mentre per le lampade tradizionali è possibile fare riferimento ai cataloghi (o alla stessa CIE 154:2003 che presenta valori cautelativi), per le sorgenti a LED occorre fare riferimento alle curve fornite dai produttori, diverse a seconda della temperatura di giunzione considerata e della corrente di pilotaggio (ben consci però che il comportamento nella reale applicazione risulta in genere molto diverso da quello studiato in laboratorio, con alimentazione, sollecitazioni e temperature controllate).

Curva di decadimento di una lampada SAP

Curva di decadimento LED Lumileds rebel a 350mA e Ta=25°C

LLMF come riportato nel documento portoghese

Quindi, mentre per una lampada a scarica è possibile prevedere in maniera abbastanza accurata il decadimento, per una sorgente a LED occorrerebbe conoscere il lotto utilizzato (non so se ne siete a conoscenza, ma non tutti i lotti della stessa tipologia di LED sono uguali e cambiano molto a seconda dei controlli e del costo), la corrente di pilotaggio, la temperatura di giunzione media di funzionamento per ogni diodo presente all’interno dell’apparecchio (visto e considerato che molti produttori alimentano alcuni diodi con correnti differenti all’interno dello stesso apparecchio), il tutto sapendo che questi dati possono variare in maniera sensibile, visto e considerato che non stiamo parlando di misure di laboratorio, ma di applicazioni sul campo. Quindi non mi sembra stupida l’indicazione fornita dal documento portoghese di definire sempre e comunque un decadimento L70 a 65000 ore.
E a questo punto si capisce come le cosiddette “50000” ore significano poco o nulla: un apparecchio LED potrebbe essere usato  anche per 150000 ore, ben sapendo che in questo caso il coefficiente di manutenzione utilizzato risulterebbe infimo.

Il fattore di sopravvivenza della sorgente (LSF) indica la progressiva mortalità di una sorgente dopo un certo numero di ore di funzionamento.

Fattore di sopravvivenza sorgente

In questo caso il documento portoghese indica una percentuale di rottura del 5% oltre le 12000 ore di funzionamento; altri, come la SITECO, indicano una percentuale di rottura del 2% a 50000 ore; altri ancora prevedono che i LED siano indistruttibili.
In ogni modo la differenza principale fra un impianto a scarica ed uno a LED risiede nel fatto che un apparecchio a scarica monta in genere una sola sorgente, mentre all’interno di un apparecchio a LED possono convivere fino a 100 diodi: questo significa che quando una lampada a scarica si rompe, questa va sostituita immediatamente, per mantenere le condizioni di giusta uniformità ed illuminamento della strada, mentre la rottura di un diodo LED all’interno dell’apparecchio può non comportare la sua sostituzione immediata (anche perché altrimenti i costi sarebbero altissimi).
Nei calcoli per un apparecchio a LED va quindi adottato un fattore LSF=1,00 se si prevede di sostituire l’apparecchio  (o il modulo se possibile) alla rottura del primo diodo all’interno (pari quindi al fattore per una lampada a scarica), va adottato invece un fattore di almeno LSF=0,98 (per 50000 ore di funzionamento) se invece si lascia l’apparecchio invariato (ben consci però del fatto che non sempre la fotometria rimane inalterata allo spegnimento di un diodo).

Infine il fattore di deprezzamento dell’apparecchio (LMF) è dovuto in genere allo sporco che si accumula sul vetro di protezione (o alle lenti applicate ai diodi) e quindi è in funzione del grado di protezione IP dell’apparecchio, dell’intervallo di pulizia previsto dal piano di manutenzione e dall’inquinamento nell’area di installazione:

Fattore di deprezzamento dell'apparecchio secondo documento SITECO

Fattore di deprezzamento dell'apparecchio come appare nel documento portoghese

Definizione di inquinamento basso e alto

Attenzione: tutti questi documenti ci dicono una cosa importante (e che già avevo sottolineato in passato).
E’ ASSOLUTAMENTE FALSO CHE UN APPARECCHIO LED NON RICHIEDE MANUTENZIONE!
Tutti gli apparecchi LED infatti (così come gli apparecchi a scarica) richiedono un ciclo di pulizia eseguito almeno una volta ogni quattro anni in ambiente pulito se non si vogliono fare calcoli illuminotecnici con coefficienti di manutenzione estremamente bassi. E questa non è una cosa che mi sono inventato di sana pianta: basta fare un giro per la Bologna-Firenze ed accorgersi come non soffermarsi sugli aspetti manutentivi possa trasformare un buon impianto in galleria in una illuminazione “cimiteriale”.
Inoltre, come si può notare dal documento portoghese, utilizzare materie plastiche (come le lenti secondarie utilizzate da numerosi produttori) comporta un peggioramentodel 6% – 7% rispetto all’utilizzo della copertura in vetro; inoltre il cosiddetto vetro “autopulente” funziona solamente se leggermente convesso (altrimenti lo sporco non “scivola”): dimenticatevi quindi migliorie per vetri piani così come richiesti da alcune leggi regionali (ed in ogni modo è possibile prevedere un miglioramento di non più del 5% rispetto ai dati presentati sopra).

A questo punto siamo in grado di calcolare il fattore di manutenzione da utilizzare nei calcoli illuminotecnici (e conseguentemente anche il costo di manutenzione) per apparecchi a scarica e apparecchi a LED: il fattore di manutenzione da utilizzare è pari al punto più basso del grafico manutentivo ricavato secondo le tabelle viste sopra.

Grafico della manutenzione per un apparecchio sap

Tipo di manutenzione: cambio programmato lampada ogni 14000 ore (circa 3,5 anni) con contestuale pulizia del vetro
Costo intervento: 50 euro (prezzo lordo man. str. 2 operai con cestello, op. el. E.R.)
Costo annuale manutenzione: 14 euro circa
Coefficiente di manutenzione: 0,79

Grafico della manutenzione per un apparecchio LED

Tipo di manutenzione: cambio apparecchio a 50.000 ore (circa 12 anni) con fattore di decadimento L85 e pulizia del vetro ogni 16000 ore (circa 4 anni)
Costo intervento: 35 euro (prezzo lordo man. str. 2 operai con cestello, op. el. E.R.)
Costo annuale manutenzione: 9 euro circa
Coefficiente di manutenzione: 0,75

– Luce bianca e declassficazione

In base ai calcoli sopra (ma anche alle numerose evidenze sperimentali pubblicate ormai ovunque, si veda ad esempio: lo studio NLPIP sulle strade principali e locali o alle tesi pubblicate dall’Università di Padova sulle prestazioni dei LED e sui sistemi di illuminazione LED) si capisce come con prestazioni pressoché identiche (nel migliore dei casi) agli apparecchi a sodio e solo 5 euro di risparmio sulla manutenzione a fronte di circa 500 euro in più come acquisto iniziale, risultasse pressoché impossibile giustificare qualsiasi ipotesi di risparmio.
Ecco allora spuntare dal cilindro magico l’ipotesi “mistica” della declassificazione; mistica perché è più che altro questione di fede pensare che con una “luce bianca” sia possibile ridurre dal 25%  al 50% il flusso luminoso dell’apparecchio mantenendo al contempo gli stessi livelli di illuminazione. Tanto più che – correttamente – la norma UNI 11248 “indica” e non “prescrive” la declassificazione per le sorgenti a luce bianca (si veda a riguardo l’articolo sui led precedente), lasciando quindi al progettista illuminotecnico la piena responsabilità di tale decisione (secondo gli art. 1176 e 2236 del Codice Civile). Questo significa che un progettista illuminotecnico  deve applicare questa declassificazione con assennatezza e secondo criteri scientifici (e non  fideistici): un impianto con meno luce del dovuto potrebbe non essere considerato a norma se non supportato da evidenze sperimentali che confermano la corretta progettazione.

E poiché noi siamo uomini di scienza e non di fede, facciamo sempre riferimento a studi scientifici consolidati e condivisi.
In questo caso il riferimento è dato dalla norma CIE191:2010 – “Recommended system for mesopic photometry”, che incorpora al suo interno gli studi ed approfondimenti nati in seno al progetto “MOVE”, di cui ho già parlato in un altro articolo.
Lo studio definisce una nuova curva di ponderazione in ambito mesopico, in sostituzione a quella attuale fotopica, per valutare il flusso luminoso di una sorgente; questa nuova curva è fatta in maniera tale da raccordarsi alla curva scotopica (CIE 1951) per valori bassi di luminanza e a quella fotopica (CIE 1931) per valori alti di luminanza.

Le curve di ponderazione mesopiche

Per semplicità, riporto solamente i valori più comuni di luminanza in rapporto alle tipologie di sorgenti più diffuse (a sodio alta pressione e a “luce bianca” a diverse temperature di colore).

Correlazioni fotopica/mesopica per sorgente SAP

Sorgente Sodio Alta Pressione:
0,75 cd/mq -> 0,83 cd/mq (+10%)
1,00 cd/mq -> 1,06 cd/mq (+6%)
1,50 cd/mq -> 1,55 cd/mq (+2%)

Correlazioni fotopica/mesopica per sorgenti a luce bianca 3500K

Sorgente Luce Bianca 3500K:
0,75 cd/mq -> 0,73 cd/mq (-3%)
1,00 cd/mq -> 0,97 cd/mq (-3%)
1,50 cd/mq -> 1,47 cd/mq (-2%)

Correlazioni fotopica/mesopica luce bianca 4000K

Sorgente Luce Bianca 4000K:
0,75 cd/mq -> 0,70 cd/mq (-7%)
1,00 cd/mq -> 0,95 cd/mq (-5%)
1,50 cd/mq -> 1,45 cd/mq (-3%)

Correlazioni fotopica/mesopica luce bianca 5000K

Sorgente Luce Bianca 5000K:
0,75 cd/mq -> 0,66 cd/mq (-12%)
1,00 cd/mq -> 0,93 cd/mq (-7%)
1,50 cd/mq -> 1,43 cd/mq (-5%)

Come si può vedere, rimane ben poco della riduzione permessa dalla normativa, soprattutto per valori uguali o superiori a 1,00 cd/m (vorrei quindi capire come verranno giustificati i progetti di alcune strade che da ME2 sono passate a ME3 con una riduzione del 50% del flusso): spero che nella revisione imminente della UNI 11248 si tenga conto di queste evidenze sperimentali perchè E’ ASSOLUTAMENTE ERRATO UTILIZZARE LA DECLASSIFICAZIONE SEMPRE E COMUNQUE.

3) Un passo avanti e un passo indietro

A margine delle considerazioni fatte sopra, esistono altri problemi legati all’applicazione estensiva di apparecchi a LED. Sembra infatti che, per un problema risolto (o comunque per alcuni dati che finalmente incominciano ad essere pubblicati), ne spuntino in continuazione altri.

– La scelta della classe di isolamento

Da qualche mese diversi produttori di apparecchi LED dichiarano che non è possibile garantire il corretto funzionamento degli alimentatori nei casi in cui l’apparecchio sia in Classe II: un alimentatore elettronico è infatti una parte molto fragile del sistema ed esposta alle sovratensioni.
Questo di per se è già un dato significativo, e conferma che un apparecchio LED potrebbe richiedere comunque interventi di manutenzione straordinaria prima della fine vita dichiarata (tra l’altro, vi siete mai chiesti perché a fronte di 15 anni di funzionamento, la garanzia si ferma generalmente a soli 3 anni?). Inoltre, mentre negli apparecchi a scarica è facile accedere al vano alimentatore, in molti apparecchi a LED è impossibile intervenire all’interno dello stesso e quindi, in caso di guasto, occorre sostituire l’intera armatura.

I vantaggi della Classe II di isolamento sono molteplici, perché non occorre più verificare e ripristinare in continuazione il collegamento a terra del palo e quindi la sicurezza è maggiore. Tornare alla Classe I sarebbe sicuramente un passo indietro, senza poi contare i maggiori costi di manutenzione derivanti da questa scelta.
D’altronde questo problema è comune a tutti gli alimentatori elettronici (anche quelli per gli apparecchi a scarica) e pertanto sarebbe auspicabile che venissero adottati sistemi di protezione adatti a garantire il giusto isolamento, senza dover per questo tornare a progettare impianti in Classe I.

– Le dimensioni contano

Tutti i manuali in circolazione che parlano dei LED pongono l’accento sulle piccole dimensioni dei diodi e quindi sulla possibile riduzione degli ingombri.
Questa è un’ottima cosa, perché riducendo le dimensioni degli apparecchi non solo si riducono le spese per i materiali, ma anche quelle per l’imballaggio e il  trasporto, con conseguente abbattimento di CO2 (e soprattutto dei costi del carburante, che di questi tempi non fa mai male).
Già in passato diverse ditte del settore si sono impegnate alla riduzione degli ingombri con gli apparecchi a scarica (arrivando a lunghezze totali di circa 50 cm, di contro ai soliti 70 – 80 cm) diminuendo, tra l’altro, anche il carico sul sostegno.

Purtroppo, nonostante le buone premesse, ancora gli apparecchi a LED si aggirano su lunghezze di 80 – 100 cm ed hanno pesi notevoli. Ovviamente non è colpa dei produttori, ma del numero necessario di diodi per avere un sufficiente flusso luminoso totale e dal conseguente apparato di smaltimento del calore (a proposito: diffidate di tutti quegli apparecchi che non sembrano avere abbastanza “materiale” dissipativo, importantissimo per la garanzia di durata e mantenimento del flusso luminoso).
Progettare un apparecchio non significa semplicemente “mettere in fila” un paio di LED, ma rifinire il prodotto a 360°, occupandosi della fotometria e della parte elettrica, così come della dissipazione e del design. Un apparecchio a LED bellissimo ma che costringe ad aumentare le sezioni di un palo o la profondità di scavo dei plinti risulta inutile come un apparecchio mediocre, perché fa lievitare in maniera incontrollata ed inutile i costi di installazione.

4) Sapere fare i conti

Chiudo la discussione con un accenno a come dovrebbero essere eseguiti i conti economici in vista di una riqualificazione o nuova installazione di un impianto di illuminazione.
In questi casi occorre SEMPRE tenere in considerazione che:

  1. tutti gli apparecchi illuminanti di ultima generazione (siano essi a scarica o a LED) sono comunque migliori di quelli già installati e con qualche anno alle spalle: questo significa che necessariamente una riqualificazione con apparecchi prestazionali comporta sempre un miglioramento in termini di costo energetico e manutentivo (se questo non avviene o l’apparecchio scelto è scadente oppure l’impianto presenta talmente tante complicazioni/vincoli da non consentire margini di risparmio);
  2. in base al punto 1, risultano perfettamente inutili tutti quei documenti che dimostrano come la sostituzione di un apparecchio esistente con uno nuovo (sia esso a scarica o a LED) porta a dei risparmi: quale pazzoide mi chiedo vorrebbe sostituire un apparecchio esistente con uno che consumi più energia o faccia meno luce? Per capire quale tecnologia porti il maggiore risparmio (o un minore tempo di ritorno) occorre fare confronti fra diversi apparecchi performanti di ultima generazione (siano essi a scarica o a LED) e di diversi produttori che forniscano le stesse prestazioni illuminotecniche;
  3. in questo caso, come riporta il documento del NLPIP, “a complete comparison should demonstrate the system’s   performance compared to alternative  technologies that meet all of the required performance criteria. Evaluations should be measured or simulated excluding ambient light and should include consideration of the full system costs” ovvero “una comparazione completa [fra apparecchi illuminanti] dovrebbe dimostrare le performace del sistema confrontandole con tecnologie alternative che soddisfino tutti i criteri prestazionali richiesti dall’analisi. Tali valutazioni dovrebbero essere misurate o simulate escludendo le luci dell’ambiente circostante e dovrebbero includere un’analisi dei costi dell’intero sistema“. Quindi ad esempio non ha alcun senso presentare comparazioni in cui venga messo sullo stesso livello un apparecchio LED che produce circa la metà dell’illuminamento a terra rispetto al corrispettivo apparecchio a sodio alta pressione;
  4. includere i costi dell’intero sistema significa innanzitutto prevedere quale piano di manutenzione si vuole adottare per un determinato apparecchio e poi, in base a questo, definire le prestazioni raggiungibili ed i costi energetici e di manutenzione: ha poco senso presentare un risultato illuminotecnico con coefficienti di manutenzione alterati (tipo MF=0,90) ed in base a questo affermare che un apparecchio LED risparmia ed in più non necessita di manutenzione. Servono dati concreti e – purtroppo per loro – non possono essere i produttori a fornirli perché non sono loro a gestire l’impianto e rispondere dell’eventuale inadeguatezza dello stesso nel tempo;
  5. infine occorre eseguire analisi di TCO (Total Cost of Ownership) che includano TUTTI i costi inerenti all’impianto presentato (come ad esempio i costi di posa dei sostegni e linee, di posa dell’apparecchio, di manutenzione e pulizia).

Tutto il resto sono chiacchiere da bar.

 

S.V.B.E.E.Q.V.

Matteo Seraceni

 

Leggi anche:

Illuminazione stradale a LED – 1^ parte

Illuminazione stradale a LED – 2^ parte

 

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Certificazione energetica di apparecchi ed impianti di Pubblica Illuminazione

Certificazione energetica di apparecchi e impianti di Pubblica Illuminazione________________________Q

uando l’anno scorso ho cominciato a scrivere articoli sugli apparecchi LED per illuminazione stradale non ero certo mosso da interessi di parte (non lavoro per un produttore, non sono astrofilo, non produco apparecchi miei), nè ero un pazzo visionario: volevo semplicemente mettere in chiaro quali erano i REALI pregi e difetti di questi apparecchi.
E per REALI non intendo “verosimili” o “probabili”, ma testati sul campo e quindi effettivamente riscontrabili. Il tempo mi ha dato ragione: basta guardare come oggi i produttori siano molto più cauti nella presentazione dei risultati conseguibili oppure come ci sia stato un generale dietrofront sulle “meraviglie” della luce bianca e dei LED. Tutto questo perché, al contrario dei tanti ed improbabili “esperti” spuntati come funghi in questi ultimi anni, ho avuto la fortuna di poter mettere le mani sulle apparecchiature e quindi conoscerne in dettaglio tutte le sfaccettature.

Lo scopo di quegli articoli (e in generale lo scopo generale di questo blog) era di mettere in discussione tutte le varie affermazioni mendaci ed improbabili che affollano giornali e siti internet.
Per questo sono stato tacciato di disfattismo, ignoranza, incompetenza; addirittura mi è stato intimato, in maniera più o meno velata, di smettere di scrivere e fare test.

Invece eccomi qua. Continuo col mio lavoro di ricerca (che non si ferma ai LED, come potete vedere e  si sta allargando anche a collaborazioni con l’università), per tentare di fornire gli strumenti adatti alla corretta valutazione degli impianti di Pubblica Illuminazione.
Il lavoro che presento in questo articolo (pubblicato tra l’altro anche sul numero di AIDI LUCE 4/2010) risale a circa un anno fa e cerca di fornire una serie di parametri utili alla definizione dell’efficienza di apparecchi ed impianti di pubblica illuminazione.

1) Strategie per la sostenibilità e Criteri Ambientali Minimi per l’illuminazione

La recente politica europea sui prodotti che consumano energia, volta a coniugare sostenibilità e competitività, andrà ad incidere fortemente sulle caratteristiche che i prodotti di illuminazione di nuova generazione dovranno possedere per poter essere commercializzati all’interno dell’Unione Europea. Tale politica pone al centro una knowledge economy, una economia della conoscenza, basata quindi non sul prezzo, ma su una serie di discriminanti tese a favorire una produzione di qualità, attenta all’ambiente e soprattutto all’intero ciclo di vita dei prodotti.
Gli strumenti operativi sviluppati in questo contesto, come la cosiddetta politica integrata di prodotto (IPP), hanno portato alla creazione di diverse direttive, quali ad esempio quelle per il riciclo (RAEE, ROHS), le direttive EuP (Energy using Products) ed il Programma d’azione Ambientale dell’Unione Europea.

Ovviamente la spinta principale per l’adozione di prodotti sostenibili può venire solo dalle Amministrazioni pubbliche (che rappresentano la fetta più importante del mercato) ed in questa prospettiva vanno sviluppati strumenti che possono guidare le scelte verso le migliori tecnologie presenti oggi sul mercato.
A livello nazionale sono in via di approvazione bandi di acquisti verdi che intendono favorire lo sviluppo di un mercato di prodotti e servizi a ridotto impatto ambientale attraverso la leva della domanda pubblica. All’interno del Piano Nazionale d’Azione sul Green Public Procurement (PAN GPP) sono pertanto stati definiti dei Criteri Ambientali Minimi (CAM)  in diversi settori che consentono di definire un acquisto “sostenibile” attraverso specifici requisiti, criteri premianti, riscontro sul mercato europeo e attenzione sull’intero ciclo di vita del prodotto.
Il documento dedicato ai CAM relativi all’illuminazione pubblica è in fase di definizione ed è pubblicato sul sito del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Mare. Questi criteri hanno lo scopo di promuovere l’adeguamento degli impianti di illuminazione pubblica esistenti o la realizzazione di impianti nuovi che, nel rispetto delle esigenze di sicurezza degli utenti, abbiano un ridotto impatto ambientale in un’ottica di ciclo di vita.

Per tener conto dei diversi tipi di interventi che possono essere attuati, i criteri sono stati suddivisi in tre sottogruppi:

  • Lampade HID e sistemi LED: relativi alla sostituzione di lampade a scarica e sistemi a LED in un impianto esistente; particolare attenzione va posta al mantenimento delle condizioni di sicurezza dell’apparecchio, in quanto la modifica rispetto alla configurazione iniziale comporta la perdita della marcatura CE originaria ed è quindi necessario che ad ogni modifica eseguita sia emessa una nuova dichiarazione CE, con assunzione di responsabilità da parte di chi ha eseguito le modifiche.
  • Corpi illuminanti: relativi alla sostituzione o all’installazione dei soli corpi illuminanti e pertanto alle caratteristiche minime e migliorative che gli apparecchi devono avere.
  • Impianti di illuminazione: relativi alla realizzazione di un impianto ex-novo; in questo caso, poiché i consumi dipendono non solo dalle sorgenti e dalle caratteristiche ottiche degli apparecchi ma anche dalla geometria di installazione adottata, è possibile individuare criteri che consentano le migliori prestazioni e il minor impatto ambientale. In particolare, è stato messo a punto un criterio di qualificazione energetica basato sul prEN 13201-5, con livelli di riferimento dedotti in seguito ad un benchmark delle soluzioni tecnologiche commercializzate nel mercato di illuminazione pubblica europeo nel 2009.

2) Proposta HERA Luce di certificazione energetica

Circa un anno fa HERA Luce mi chiese di sviluppare macroindicatori dell’efficienza reale di un impianto di illuminazione, che andassero oltre l’indicazione dell’efficienza media delle sorgenti. La mia idea è stata quella di sviluppare, in un’ottica di progressiva complessità, indicatori che dessero conto dello stato degli apparecchi illuminanti e quindi delle installazioni vere e proprie. Ne sono nate due schede, che definiscono una classe energetica in base alle norme tecniche in vigore, alle direttive europee ed EuP inerenti il risparmio energetico, alle norme di altri paesi membri riguardanti l’efficienza energetica della pubblica illuminazione e ai requisiti prestazionali definiti su una logica di Best Avaiable Technologies.
Per quanto riguarda il singolo apparecchio illuminante, l’indice di valutazione fa diretto riferimento alle prestazioni delle sue componenti principali, che contribuiscono a definire l’efficienza dello stesso: la sorgente luminosa, la componente ottica, l’alimentazione. Per ciò che riguarda gli impianti di illuminazione invece si fa riferimento sia all’apparecchio di illuminazione installato, sia alle caratteristiche al contorno che definiscono la geometria dell’impianto (come interasse fra punti luce e larghezza della strada).
Il fatto che questi coefficienti siano stati adottati anche all’interno dei CAM per la pubblica illuminazione non fa altro che confermare la bontà della mia intuizione ed il fatto che probabilmente la crisi economica e le vicissitudini di questi ultimi anni hanno portato alla richiesta di strumenti di valutazione che andassero al di là della corretta progettazione illuminotecnica e del rispetto delle leggi regionali.

Purtroppo le logiche di acquisto delle Amministrazioni Pubbliche non sempre sono tese al reale miglioramento degli impianti esistenti e al risparmio energetico; ad aggravare la situazione contribuisce l’insufficienza delle corrette informazioni a disposizione degli Amministratori, che per svolgere il loro mandato non debbono essere preparati ad affrontare ogni materia tecnica con rigore scientifico, e pertanto non riescono a discernere in maniera appropriata i dati forniti dai vari costruttori: risulta così abbastanza facile vendere prodotti non competitivi facendo leva sulla confusione degli interlocutori.
Lo sforzo maggiore è stato pertanto indirizzato nel trasformare questi dati in indicatori di facile lettura. Un prezioso aiuto è arrivato in questo senso dalla pratica ormai consolidata dell’ energy labelling (che oggi va dal settore dell’elettronica a quello degli immobili): queste etichette non solo rendono immediata la visualizzazione dei consumi e delle prestazioni, ma forniscono anche indicazioni circa il funzionamento e l’uso dei prodotti.
Come per un elettrodomestico, è possibile fornire una indicazione di massima sui consumi e le prestazioni di un apparecchio illuminante attraverso un indicazione del rendimento dello stesso; come per un immobile, un impianto di illuminazione può essere accompagnato da un documento che ne certifichi i consumi e le specifiche di funzionamento.

2.1) Apparecchi illuminanti

Data la moltitudine di apparecchi di illuminazione presenti oggi sul mercato e l’estrema eterogeneità di sorgenti a disposizione appare necessaria una revisione dei fattori che oggi si utilizzano per esprimere le caratteristiche prestazionali ed energetiche.
Per ottenere il minor consumo di energia ed al contempo massimizzare i risultati occorre valutare tutti i fattori che concorrono al buon funzionamento di un apparecchio; fattori come il rendimento di un apparecchio e l’efficienza luminosa delle lampade riflettono unicamente caratteristiche parziali e non esaustive. La necessità di poter esprimere l’efficienza in un unico termine ha portato quindi all’unione di questi due fattori in un coefficiente globale che tenga conto del flusso utile emesso dall’apparecchio e della reale potenza assorbita, espresso dalla relazione seguente:

Questo termine viene definito come Efficienza Globale di un apparecchio illuminante, ed è definito dal rapporto fra flusso nominale emesso dalle sorgenti nude presenti all’interno dell’apparecchio e la potenza reale assorbita dall’apparecchio (intesa come somma delle potenze assorbite dalle sorgenti e dalle componenti presenti all’interno dello stesso), il tutto moltiplicato per il rapporto fra flusso luminoso emesso dall’apparecchio e rivolto verso l’emisfero inferiore e flusso luminoso totale (Dlor)[1].
Va notato che, in caso di apparecchi a LED con flusso interamente rivolto verso l’emisfero inferiore, la formula è del tutto identica a quella dell’efficienza di sistema così come indicata dalla UNI 11356:2010.

Il parametro di riferimento utilizzato per la classificazione è costituito dall’ Efficienza Globale di riferimento, desunta dalle indicazioni normative e dalle BAT presenti oggi sul mercato; questo parametro viene diversificato in base all’ambito di applicazione di ogni apparecchio e di cui si fornisce qualche esempio[2]:


A questo punto viene definito un Indice Parametrizzato di Efficienza dell’ Apparecchio illuminante (IPEA) calcolato nel modo seguente:In base al parametro di riferimento vengono quindi definite le classi energetiche dell’armatura:

In base alla definizione data, è possibile osservare come si sia scelto di premiare apparecchi illuminanti  dotati di sorgenti molto performanti, di alimentatori elettronici e di ottiche con rese elevate. Si vuol fare inoltre notare come questo indicatore analizza semplicemente la qualità delle componenti; per avere una idea delle performace sul campo si rimanda all’indicatore di seguito indicato.

2.2) Impianti di Pubblica Illuminazione

Anche in questo caso i parametri di riferimento sono stati desunti dalla media di varie simulazioni di calcolo ed è stato scelto come criterio quello espresso all’interno della prEN 13201-5 e chiamato SLEEC (Street Lighting Energy Efficiency Criterion), differenziato in SL per la progettazione illuminotecnica in luminanza e SE per la progettazione illuminotecnica in illuminamento. Ad esempio, per una installazione stradale, lo SLEEC di progetto risulta pari a:

Per classi illuminotecniche che tengono conto dell’illuminamento, al posto della luminanza media mantenuta,occorre sostituire l’illuminamento medio mantenuto; per ambiti in cui non vi è una installazione lungo un percorso, all’interdistanza e alla lunghezza della strada è possibile sostituire un’area media di illuminamento. La logica seguita appare già in numerose leggi e proposte in ambito europeo, ma in questo caso i parametri sono stati diversificati in base alle diverse classi indicate dalla UNI 13201-2, di cui si fornisce qualche esempio[3]:

Viene quindi definito un Indice Parametrizzato di Efficienza dell’Impianto di illuminazione (IPEI) nel modo seguente:

Si vuol far notare l’aggiunta di un indice correttivo dovuta ad un problema rincontrato nel calcolo dello SLEEC: con questo indice potrebbe infatti capitare che date due installazioni aventi medesime condizioni al contorno, venga premiata quella con interasse minore. L’indice introdotto consente di ottenere la maggiore interdistanza fra i punti luce, premiando la più o meno puntuale aderenza ai valori minimi indicati dalla norma UNI 11248.
In base a questo indice vengono definite le classi energetiche per un impianto di Pubblica Illuminazione:

Il criterio proposto per gli impianti è in perfetta continuità con quanto esposto riguardo agli apparecchi illuminanti, poiché premia installazioni che adottano lampade performanti, alimentatori elettronici ed ottiche in grado di soddisfare al meglio le richieste di ogni ambito progettuale.

3) Schede di certificazione di apparecchi ed impianti

La definizione di indici di efficienza energetica è sicuramente uno strumento utile ma, come dimostra la scheda proposta da AIDI per gli apparecchi illuminanti a LED, occorre integrare questa informazione in dei report che illustrino in maniera esaustiva le principali caratteristiche di un sistema. Occorre fornire un valido strumento che presenti una parte generale comprensibile da chiunque ed una parte più specifica, dedicata ai tecnici, che possa essere da supporto nelle scelte inerenti l’acquisto di nuovi corpi illuminanti e l’installazione di nuovi impianti.
Per questo motivo HERA Luce mette a disposizione delle Amministrazioni due diverse schede che definiscono una classe energetica di confronto ed ulteriori specifiche che consentono la definizione puntuale ed esaustiva di tutti i parametri in gioco.
Tutte queste schede andranno a creare un database, che verrà presentato alle Amministrazioni, in maniera tale da caratterizzare apparecchi ed impianti con criteri univoci e confrontabili tra loro.

La prima scheda proposta riguarda gli apparecchi illuminanti: lo scopo è quello di fornire un quadro completo dell’apparecchio, riguardante sia le caratteristiche tecniche che prestazionali. La scheda proposta potrebbe inoltre fornire un supporto di partenza da cui sviluppare una catalogazione degli apparecchi con fati allineati per tutti i produttori: la migliore arma contro coloro che barano è sicuramente quella della trasparenza.

La seconda scheda riguarda gli impianti di Pubblica Illuminazione: in questo caso si tratta di una scheda che va a corredo del progetto di un nuovo impianto e si pone come valutazione dei consumi e delle modalità di manutenzione dello stesso.
Mentre la scheda precedente esamina l’apparecchio unicamente dal punto di vista delle prestazioni potenziali, con questa scheda viene valutato il suo effettivo rendimento sul campo; inoltre vengono forniti tutta una serie di dati che servono a caratterizzare l’impianto nel suo intero ciclo di funzionamento. L’intento è quello di fornire una prima indicazione sul Life Cycle Assessement delle tecnologie messe in campo, al fine di individuare l’effettivo valore dell’impianto dalla data di installazione a quella di dismissione.

All’intero di un lavoro di ampio respiro inerente la ricerca e l’efficientamento dei sistemi di Pubblica Illuminazione, le schede di certificazione che ho sviluppato rappresentano quindi uno strumento utile che attraverso parametri tecnici puntuali possono guidare il professionista nell’individuazione del prodotto migliore e definiscono un sistema semplice ed affidabile di certificazione con parametri di riferimento facilmente aggiornabili.
Le sfide del futuro vanno affrontate oggi, per garantire l’adozione delle tecnologie migliori e la massima efficienza degli impianti di Pubblica Illuminazione.

S.V.B.E.E.Q.V.

Matteo Seraceni

“Mi raccomando: questa volta cattivi, eh?”

 

Riferimenti:
[1] Si faccia riferimento a quanto espresso nel mandato CE M226 e nella CELMA “poposal for luminaire efficiency factor presentation” CEN TC 169 document N 418,2001; si veda ancora il NEMA standards publication No. LE5.
[2] Si faccia riferimento a quanto espresso nell’allegato VI del regolamento n. 245/2009 della Commissione Europea e a quanto indicato dai CAM presentati dal Ministero dell’Ambiente.
[3] Si faccia riferimento a quanto indicato dai CAM presentati dal Ministero dell’Ambiente e al Real Decreto 1890/2008 spagnolo.

Glossario:

  • ηa: efficienza globale di un apparecchio, intesa come rapporto fra flusso luminoso emesso dall’apparecchio e diretto verso il basso e potenza totale installata.
  • Φs: flusso luminoso emesso dalle sorgenti nude presenti all’interno dell’apparecchio illuminante.
  • Dlor: rapporto fra flusso luminoso emesso dall’apparecchio e diretto verso l’emisfero inferiore e flusso luminoso emesso dalle sorgenti nude.
  • ηr: efficienza globale di riferimento di un apparecchio illuminante (tabellata).
  • Wreali oppure Preale: potenza reale assorbita dall’apparecchio, comprensiva di tutte le componenti ausiliarie.
  • SL: SLEEC in luminanza per una particolare installazione.
  • SE: SLEEC in illuminamento per una particolare installazione.
  • Lm: luminanza media mantenuta, calcolata sull’area presa in esame, con un coefficiente di manutenzione MF = 0,80.
  • irif: interdistanza di riferimento fra due punti luminosi.
  • lmedia: larghezza media della carreggiata.
  • SLr: SLEEC in luminanza di riferimento (tabellato).
  • kinst: coefficiente correttivo che tiene conto della maggiore o minore aderenza ai valori espressi dalla UNI 11248 e premia le interdistanze maggiori a parità di condizioni al contorno.

Leggi anche:
Illuminazione stradale a LED – Parte 1
Illuminazione stradale a LED – Parte 2
Le principali grandezze illuminotecniche

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Illuminazione stradale a LED – 2^ parte redux

Illuminazione stradale LED____________________________________________________________________________________________________________Illuminazione stradale LED

d un anno di distanza dalla stesura dei primi articoli sui LED sono cambiate molte cose: la crisi economica ha messo a dura prova il mercato degli apparecchi illuminanti e ha spazzato via molti produttori senza arte nè parte improvvisatisi specialisti di illuminazione a LED; inoltre l’arrivo di una nuova generazione di diodi e componenti ha permesso dall’inizio di quest’anno l’affacciarsi sul mercato di prodotti adeguati all’illuminazione stradale.
Altre cose però non sono cambiate per niente: la mancanza ormai cronica di norme che regolino in qualche modo la produzione dei diodi LED, uniformandone caratteristiche e prestazioni, così come mancano ancora standard di misura accettati per le prove in laboratorio sulla durata; non è cambiato nemmeno l’atteggiamento di molti venditori, capaci unicamente di confondere le idee con proclami e slogan degni di una campagna elettorale, senza però produrre mai prove sulla bontà dei propri prodotti.

Ad aggravare la situazione contribuisce l’insufficienza delle corrette informazioni a disposizione degli Amministratori, che per svolgere il loro mandato non debbono essere preparati ad affrontare ogni materia tecnica con rigore scientifico, e pertanto non riescono a discernere in maniera appropriata i dati forniti dai vari costruttori: risulta così abbastanza facile vendere prodotti non competitivi a livello di mercato, facendo leva sulla confusione degli interlocutori.
Questo stato è noto in economica come “asimmetria informativa”, e si ha quando una parte degli agenti interessati nello scambio economico ha maggiori informazioni rispetto al resto dei partecipanti e può trarre un vantaggio da questa configurazione.
“Se pensate che molti esperti usino gli elementi in loro possesso a vostro detrimento, non vi sbagliate. La sussistenza dell’esperto dipende proprio dal fatto che lui ha le informazioni e voi no. O dal fatto che vi sentiate talmente disarmati davanti alla complessità di un’operazione da non sapere comunque che uso fare delle informazioni, anche quando le aveste. O che siate ancora talmente in erba da non avere l’audacia di misurarvi con un esperto blasonato come lui. Se il dottore vi suggerisce l’angioplastica – nonostante alcune ricerche paiano indicare che fa ben poco nella prevenzione dell’infarto – difficilmente penserete che il vostro medico stia approfittando dell’asimmetria informativa per spillarvi qualche migliaio di dollari in combutta con il collega” da Steven D.Levitt e Stephen J.Dubner “Freakonomics. Il calcolo dell’incalcolabile”  Sperling & Kupfer Editori, 2006.

I miei articoli risultano così “scomodi” a molti perchè ho semplicemente cercato di ristabilire la centralità dell’ago della bilancia, mediante la pubblicazione di informazioni essenziali per capire il problema LED e diminuire una parte dell’assimetria: questo ovviamente da fastidio ai venditori perchè in un rapporto non più impari non è più possibile presentare prodotti non adeguati.
Ma parliamo di apparecchi a LED.

1) Apparecchi illuminanti a LED

L’errore più comune che si commette parlando di illuminazione a LED sta nell’equivocare fra “sorgente luminosa” ed “apparecchio illuminante”: una sorgente luminosa non è che una parte di un apparecchio di illuminazione e pertanto basare la comparazione solo su una componente porta a risultati parziali ed erronei. Come ben sa chi si occupa di illuminotecnica, un apparecchio illuminante scadente rimane scadente anche con la migliore sorgente luminosa installata; inoltre un cattivo alimentatore può compromettere il corretto funzionamento e ridurre drasticamente l’aspettativa di vita.
Appare doveroso quindi, una volta definite le peculiarità delle sorgenti luminose a LED, ampliare il discorso a comprendere tutte quelle parti che possono determinare una buona o cattiva illuminazione. Per fare questo ricordiamo che un apparecchio di illuminazione può essere definito un sistema che distribuisce, filtra o trasforma la luce emessa da una o più sorgenti e che include le parti necessarie per posizionare e proteggere le sorgenti ed i circuiti ausiliari per il corretto funzionamento del sistema. Possiamo pertanto pensare ad esso come una macchina, che ha lo scopo di trasformare l’energia elettrica in energia luminosa e di farlo nel miglior modo possibile.

Un apparecchio illuminante stradale a LED si compone di diverse parti (che generalmente non sono presenti nei corrispettivi a lampade a scarica) che vengono riassunte nello schema sottostante:

Componenti di un apparecchio LED

Si può quindi notare come in linea di massima non esistano componenti dedicati alla diffusione del flusso luminoso integrati nella carena: il gruppo ottico di un apparecchio di illuminazione a LED è formato dai LED stessi, disposti in vario modo ed eventualmente affiancati da ottiche applicate (ricordiamo che un modulo LED è costituito, oltre al diodo luminoso, di una base su cui sono disposti i componenti e di una lente applicata al di sopra di esso che direziona il fascio uscente).
Un’altra peculiarità consiste nella presenza di sistemi di dissipazione più o meno consistenti, ubicati generalmente nella parte superiore della carena, indispensabili per ridurre le temperature di esercizio dei diodi (tali sistemi non sono necessari negli apparecchi con lampade a scarica, in quanto l’ambiente in cui viene alloggiata la lampada è più che sufficiente per una corretta dissipazione). Il gruppo di alimentazione invece risulta alloggiato all’interno del corpo dell’apparecchio.
Ognuno di questi componenti influisce in maniera sostanziale sul funzionamento del sistema.

1.1) Alimentatore elettronico (driver)

I LED sono componenti a bassissima tensione, che devono essere alimentati in corrente continua, livellata e stabilizzata. Gli alimentatori per LED sono di tipo elettronico e provvedono a svolgere le funzioni sia di trasformatore che di convertitore.
Le sorgenti a LED hanno una vita media molto lunga e quindi occorre che anche i driver abbiano una mortalità molto bassa; ad oggi gli alimentatori elettronici hanno una mortalità media che va dall’ 1%  al 5% ogni 10.000 ore di funzionamento. Pertanto, nelle 50.000 ore di funzionamento attese per le sorgenti LED, avremo dal 5%  al 25% di mortalità sugli alimentatori: questo significa che durante il ciclo di vita previsto per un’armatura a LED è possibile prevedere la sostituzione del driver in 1 apparecchio di illuminazione su 10. Grazie a questo dato vengono già da subito annullate le pretese di manutenzione nulla prospettate da numerosi produttori.
Inoltre la durata di vita attesa per un alimentatore elettronico decresce in maniera esponenziale all’aumentare della temperatura di lavoro: poiché le sorgenti a LED possono produrre molto calore, occorre che il driver sia adeguatamente distanziato e separato dalla parte in cui sono alloggiati i LED, per impedire eventuali malfunzionamenti.
Un driver deve assicurare un livello di corrente costantemente stabilizzato per garantire una certa uniformità nelle prestazioni: per questo motivo dovrebbe risultare molto più “robusto” degli alimentatori elettronici standard; ad oggi solo i produttori che utilizzano specifiche militari riescono a garantire una resistenza adeguata agli sbalzi di tensione che possono verificarsi all’interno della rete di distribuzione elettrica (cosa che incide in maniera rilevante sui costi di produzione).
Infine va notato che nella maggioranza dei prodotti presenti sul mercato, l’efficienza degli alimentatori elettronici (definita come rapporto fra potenza assorbita dalla lampada e potenza totale assorbita dal sistema) difficilmente si attesta al di sopra di ηb =0,88 indicato come standard per le potenze nominali fino a 100W dal regolamento CE n. 245/2009 che riguarda le specifiche per la progettazione ecocompatibile. Questo ovviamente si ripercuote in un maggiore consumo del sistema a parità di flusso luminoso erogato.

1.2) Caratteristiche dei sistemi di dissipazione

Le sorgenti luminose a LED in realtà sono più “fredde” delle sorgenti a scarica tradizionali (che possono raggiungere valori ben al di sopra dei 2000°C durante il loro normale funzionamento), ma questo non li esenta dai problemi legati al surriscaldamento: un diodo LED infatti rimane pur sempre un semiconduttore ed in quanto tale molto sensibile alle alte temperature; inoltre sappiamo che gran parte delle caratteristiche prestazionali dipendono dalla temperatura di giunzione, e quindi a maggior ragione occorre prestare attenzione ai dispositivi di dissipazione.
Per capire le grandezze in gioco va ricordato che ad oggi solo il 15% circa della potenza elettrica consumata da una sorgente a LED viene trasformata in luce, mentre il restante 85% si perde in calore. Questo dato da una parte fa intravedere come i margini di miglioramento sull’efficienza siano ancora ampi per questa tecnologia, ma dall’altra evidenzia lo spreco e lo sviluppo incredibile di calore al suo interno.
Il gap fra temperatura di giunzione e temperatura ambiente si aggira attorno ai 50°C – 70°C e non potrebbe in alcun modo venire smaltito dalla piccola area dei diodi: per questo alla piastra su cui vengono saldati i LED viene affiancato un vero e proprio dispositivo di dissipazione alettato.
Ovviamente migliori sono i materiali utilizzati per la piastra e le alette e migliore sarà lo smaltimento del calore: purtroppo per contenere i costi non tutti i produttori adottano i migliori materiali a disposizione (come ad esempio potrebbero essere le piastre ceramiche) a discapito delle prestazioni finali.
Questa disposizione inoltre genera due “zone” estremamente sensibili, che vanno curate nell’assemblaggio dell’apparecchio. La prima riguarda la saldatura del diodo LED con la piastra sottostante: ad oggi in Italia gli stabilimenti certificati dai produttori di LED si contano sulle dita di una mano e non sempre gli assemblatori si affidano a questi; inutile dire che una saldatura difettosa (o comunque un non corretto allineamento) può pregiudicare il corretto trasferimento di calore e così ridurre prestazioni e vita utile. La seconda riguarda il collegamento fra piastra e dispositivo di dissipazione: anche in questo caso le connessioni devono essere curate ed affidabili.

Apparecchio LED con piastra di dissipazione superiore

Alcuni produttori hanno adottato dispositivi che possono limitare la potenza erogata in funzione della temperatura di esercizio, in modo da evitare pericolosi surriscaldamenti (come ad esempio avviene nel thermal managment dei processori per computer): questo però potrebbe portare ad improvvisi cali di flusso luminoso non dipendenti dalla volontà del gestore e quindi resta da capire come possano continuare ad essere verificate le prescrizioni illuminotecniche allorchè un apparecchio all’improvviso si ritrovi ad emettere meno luce di quella prevista.
A questo va sommato il fatto che generalmente la temperatura all’interno degli apparecchi illuminanti a LED è superiore a quella di riferimento di laboratorio a cui le loro prestazioni sono riferite e pertanto i dati forniti dai produttori risultano ancora parziali e non perfettamente aderenti alla realtà.

1.3) Caratteristiche fotometriche di un’armatura stradale

Gli apparecchi per illuminazione stradale devono soddisfare requisiti molto stringenti dal punto di vista fotometrico: il flusso luminoso deve essere indirizzato con precisione nelle direzioni ottimali per la visibilità sulla strada e deve invece essere schermato nelle direzioni che possono procurare fastidio ai conducenti.
Per valutare le caratteristiche illuminotecniche di un’armatura stradale occorre analizzarne il solido fotometrico, che rappresenta l’intensità luminosa normalizzata emessa dalla sorgente (espressa solitamente in cd/klm) lungo le varie direzioni spaziali. Il modo più utilizzato per rappresentare graficamente la forma del solido fotometrico è quello di sezionarlo secondo uno dei piani di riferimento: l’insieme delle curve così ottenute determina la cosiddetta “curva fotometrica”, che rappresenta, sotto forma di diagramma polare, la distribuzione delle intensità luminose di un apparecchio. Grazie all’analisi delle curve fotometriche è possibile valutare in maniera intuitiva il funzionamento di un apparecchio di illuminazione.

Nel caso di apparecchi destinati all’illuminazione stradale, è molto importante che la curva fotometrica invii la luce solo nelle direzioni interessate (lungo l’asse della strada e non al di fuori di essa) e con le giuste intensità luminose (distribuita la più uniformemente possibile).
Per fare questo ci si basa sul parametro di riferimento adottato dalla norma UNI 11248: la luminanza del manto stradale. La normativa impone valori tali da garantire un buon discernimento degli ostacoli e al contempo una uniformità d’illuminazione della sede stradale e dei dintorni.
La luminanza è una grandezza vettoriale che esprime la densità con cui un’intensità luminosa viene emessa da una superficie e per questo motivo rappresenta in maniera adeguata la sensazione visiva prodotta da una sorgente luminosa sull’occhio umano; dalla definizione segue che una sorgente che emette una certa intensità da una superficie molto piccola (come un diodo LED) produce sull’occhio una sensazione molto più forte di una sorgente analoga ma con una superficie molto più ampia (come una lampada tradizionale): questo fattore già rende conto di uno dei problemi principali degli apparecchi illuminanti a LED e cioè il controllo dell’abbagliamento.
Questa grandezza inoltre si distingue dall’illuminamento perché non definisce la componente “reale” di luce che arriva a terra, ma piuttosto una componente “soggettiva” che appare all’osservatore in funzione dell’angolo dal quale sta osservando l’oggetto e alla capacità della superficie illuminata (in questo caso l’asfalto stradale) di riflettere la luce.

Per le applicazioni stradali l’adozione della luminanza come parametro di riferimento significa definire la luminosità del manto stradale, come questa viene percepita dagli automobilisti e come questa può aiutare il compito visivo di un automobilista. Si può ottenere una buona visibilità degli ostacoli aumentando il contrasto di luminanza fra il manto stradale e gli ostacoli stessi, cercando di rendere massima la luminanza del manto stradale nella direzione di vista prevalente di un osservatore (che si trova compresa in un angolo molto ristretto, da -1,5° a 0,5° rispetto all’orizzonte): per un adeguato livello di luminanza in questa direzione, si devono privilegiare le direzioni di incidenza della luce molto radenti, capaci di generare verso il conducente una luminanza elevata grazie alla riflessione del manto stradale e in particolare alla sua componente speculare.
Per questo nella scelta di apparecchi efficienti rimane prioritaria la forma della curva sul piano C0-C180: il solido fotometrico di un apparecchio stradale avrà una forma simmetrica molto aperta, con il massimo di intensità per angoli molto elevati; allo stesso modo, per angoli troppo elevati, un’intensità molto elevata sarebbe causa di fenomeni di abbagliamento. Per questo motivo la curva fotometrica ottimale si presenta come simmetrica al piano longitudinale della strada, con intensità massime comprese fra i 60° e i 70° rispetto alla verticale (attraverso il calcolo della luminanza stradale è possibile stabilire che questa è fornita per circa il 45% per angoli compresi fra i 60° e 70°) e intensità molto ridotte oltre i 70°.
Questo parametro può venir letto direttamente dalla curva fotometrica oppure si può far riferimento all’apertura massima del fascio nel senso trasversale definita spread secondo il CIE 1976 (angolo che forma l’asse del fascio luminoso rispetto al 90% del valore massimo di intensità luminosa).

Visualizzazione grafica dello spread e throw

Uno spread attorno ai 60° può garantire un limitato abbagliamento affiancato al massimo di “allargamento” possibile che può garantire l’installazione del minor numero di apparecchi.
Ad angoli minori, l’intensità può diminuire sempre di più, poiché diminuisce la distanza fra sorgente luminosa e superficie; questo consente di ottenere anche una giusta uniformità di distribuzione della luce sul manto stradale: generalmente elevati coefficienti di uniformità portano a migliori risultati in termini di percezione visiva, pertanto strade con minore intensità luminosa ma con migliori parametri di uniformità sono senz’altro da preferirsi a vie molto luminose con scarsa uniformità. La norma UNI 11248 prevede il rispetto di due tipi di uniformità: la prima è calcolata come uniformità generale della carreggiata (U0), la seconda è definita come uniformità lungo la posizione dell’osservatore sulla carreggiata (Ul).

Per comprendere meglio quanto detto è opportuno fare alcuni esempi con apparecchi in commercio.

Fotometria di un apparecchio illuminante

Una fotometria di questo tipo ad esempio non può assolutamente essere utilizzata in ambito stradale, in quanto si evidenzia una totale mancanza di “allargamento” della curva fotometrica sul piano C0-C180 (indicato in rosso in figura: si nota che l’intensità massima non è attorno ai 60°, ma adirittura a 0°); inoltre l’intensità luminosa, anziché aumentare andando verso aperture più elevate, diminuisce: questo significa che avremo tantissima luce al di sotto dell’apparecchio illuminante, mentre molto poca nelle immediate vicinanze. La fotometria in questione pertanto non solo è errata dal punto di vista prestazionale (non consente grandi interdistanze), ma comporta una grande disuniformità di illuminazione sul piano stradale.
Nella fotometria seguente vediamo che la curva è molto allargata e che i valori di luminosità aumentano andando verso aperture più elevate: questo dovrebbe garantire una buona uniformità associata alla possibilità di avere interdistanze elevate fra i punti luce.

Fotometria di un apparecchio illuminante LED

Dal rilievo si nota però come la massima intensità luminosa si attesti attorno ai 75°, cosa che potrebbe comportare un effetto fastidioso dovuto all’abbagliamento. Un primo parametro di valutazione in questo caso può essere fornito dal parametro SLI (specific luminaire index), definito sempre dal CIE 1976 come indicatore dell’abbagliamento: per l’apparecchio in questione si nota infatti un SLI<4, che indica un moderato controllo dell’abbagliamento (in confronto ad uno SLI>4 che indicherebbe un elevato controllo dell’abbagliamento).
Sul piano C90-C270 invece risulta importante prevedere maggiori intensità luminose verso il lato strada, per evitare un’installazione su due lati della carreggiata o il ricorso a sbracci: l’introduzione di questa ulteriore asimmetria consente di riportare l’apparecchio sul bordo della carreggiata (come la classica applicazione su palo diritto), che è da preferire alle installazioni su sbraccio, in quanto meno problematiche dal punto di vista manutentivo.Anche in questo caso si può fare riferimento alla curva fotometrica oppure ai valori dei coefficienti di utilizzazione lato strada e lato marciapiede dell’apparecchio illuminante.
Lungo la direzione trasversale alla strada pertanto la curva fotometrica è asimmetrica, con direzione prevalente del flusso verso la strada nel caso di installazione lungo il bordo strada (ovviamente per installazioni a centro strada è opportuno che la curva sia simmetrica).
Questo non significa che tutto il flusso deve essere indirizzato in direzione della strada, poiché un parametro fondamentale della norma UNI 11248, il Surrounding Ratio, prevede che una parte della luce vada indirizzata anche in direzione del marciapiede. Poiché non sempre i diodi LED hanno un’efficienza luminosa paragonabile a quella delle lampade a scarica, alcuni produttori hanno pensato di “spingere” il fascio di luce solamente in direzione della strada, in modo da avere unaluminanza sufficiente: questo significa però che il coefficiente di utilizzazione lato marciapiede risulta insufficiente, come si può notare dal grafico sottostante.

Tabella dei coefficienti lato strada/marciapiede

Poiché il Surrounding Ratio prevede un coefficiente minimo di 0,5 questo significa che in generale si richiede che il coefficiente di utilizzazione lato marciapiede sia all’incirca pari a poco meno della metà del coefficiente di utilizzazione lato strada.
Ovviamente non bastano poche righe per esaurire un argomento così vasto come quello della giusta fotometria di un apparecchio illuminante; quanto detto vale solo criterio di massima per fare una prima selezione degli apparecchi, ma per una corretta valutazione rimane imprescindibile il calcolo illuminotecnico.

1.4) Caratteristiche del gruppo ottico

Spesso gli apparecchi tradizionali prevedono una certa possibilità di modificare le caratteristiche di emissione grazie a diverse posizioni di montaggio della lampada rispetto al riflettore, alle quali corrispondono solidi fotometrici con caratteristiche diverse: lo spostamento verticale da luogo a solidi fotometrici più o meno aperti in senso longitudinale rispetto alla strada, mentre lo spostamento orizzontale dà luogo a solidi più o meno asimmetrici in senso trasversale.
Ovviamente questa possibilità resta preclusa ad un apparecchio a LED, per i quali i produttori devono prevedere tanti modelli diversi per ogni curva fotometrica desiderata (e che quindi sono vincolati all’installazione prevista dal progetto illuminotecnico, senza poter essere spostati in situazioni differenti).
Questo limite incide in maniera pesante sulle possibilità di prefabbricazione delle componenti e quindi sui costi. Per ovviare a questo inconveniente e garantire al tempo stesso un’ottima resa i produttori di apparecchi a LED adottano prevalentemente le seguenti strategie:

  1. la prima soluzione consiste nel predisporre una piastra di LED in cui ognuno di questo abbia una diversa inclinazione, che possa portare ad un “mosaico” ottimale a terra; questa soluzione consente di sfruttare al massimo le potenzialità dei LED, senza ridurre l’intensità con lenti correttive, ma ovviamente è molto dispendiosa, in quanto ogni piastra deve essere un pezzo unico appositamente sagomato con diverse inclinazioni all’interno. Inoltre ogni diversa configurazione dell’ottica va pensata come un nuovo “pezzo” unico da mettere in produzione, con ricadute economiche notevoli poiché è possibile serializzare solo un discreto numero di configurazioni;

    Sistema ottico con LED inclinati

  2. la seconda soluzione, più economica, consiste nel predisporre diverse file di LED su una piastra “standard” orizzontale e successivamente applicare a questi differenti lenti e micro-lenti, che hanno il compito di diffondere la luce in modo appropriato; il prezzo contenuto è dovuto alla grande flessibilità data dall’utilizzo di diverse lenti applicate su una piastra di base comune a tutti i modelli (questo consente una grande standardizzazione dei pezzi). Lo scotto che si paga è quello di una riduzione del flusso luminoso, dovuta all’applicazione di lenti sopra ogni LED;
  3. Sistema ottico con microlenti

  4. la terza soluzione consiste sempre nel predisporre diverse file di LED su una piastra “standard” orizzontale, ma anzichè dotarsi di microlenti viene costruito attorno ad ogni diodi un piccolo rifrattore, che definisce una curva fotometrica come per una lampada tradizionale; anche in questo caso il prezzo contenuto è dovuto alla grande flessibilità, ma il rendimento di un’ottica di questo tipo rimane di poco superiore a quella di un’ottica per apparecchi tradizionali.

    Sistema ottico con rifrattori

Queste soluzioni sono strettamente legate alle caratteristiche del diodo LED, poiché a seconda del produttore, presenta dimensioni ed ottiche diverse; quindi una volta definita la forma della parte ottica, questa rimane ancorata ad un determinato diodo, che difficilmente sarà possibile sostituire, non solo con uno di marca diversa ma anche con le future evoluzioni dello stesso LED. In particolare ogni apparecchio illuminante LED è un prodotto unico, non replicabile e generalmente neppure “aggiornabile” (anche se di recente alcuni produttori hanno proposto apparecchi con ottiche ed alimentatori intercambiabile).
Un altro problema è dovuto al fatto che il singolo diodo è piccolo, ma per arrivare ai flussi delle lampade a scarica ne occorrono tanti: una delle principali caratteristiche del LED, quella della compattezza, si perde così nell’assemblaggio; mentre gran parte dei produttori stanno cercando di ottimizzare le dimensioni degli apparecchi e ridurre quindi imballaggi e merci di consumo, ci ritroviamo con apparecchi a LED grandi 2 volte o più un apparecchio tradizionale.
Infine va ricordato come l’ottica di un apparecchio di illuminazione a LED sia costituita da più diodi, ognuno dei quali contribuisce all’illuminamento di una certa parte della sede stradale: nel malaugurato caso che anche un singolo LED si rompa (oppure riduca in maniera sostanziale il proprio flusso oppure semplicemente sia stato saldato in una posizione leggermente diversa da quella prestabilita) la fotometria non può più sopperire al compito visivo richiesto, poiché incompleta; ad oggi, vista l’impossibilità di una sostituzione immediata dei singoli diodi, questo si traduce in una sostituzione completa dell’intera armatura.

2) Rendimento globale di un apparecchi illuminante

Data la moltitudine di apparecchi illuminanti e sorgenti a LED oggi presenti sul mercato, occorre definire un criterio di valutazione che possa accorpare gli elementi che concorrono ad una buona illuminazione: fattori come il rendimento di un apparecchio e l’efficienza luminosa delle lampade riflettono unicamente caratteristiche parziali e non esaustive.
In particolare il rendimento di un apparecchio (calcolato come rapporto fra flusso luminoso emesso dall’apparecchio e flusso originariamente emesso dalle lampade nude presenti in esso) non tiene conto dell’eventuale flusso luminoso disperso verso l’alto (e quindi non utilizzato per l’illuminazione del piano stradale) e della potenza assorbita dall’apparecchio. L’efficienza luminosa delle lampade (calcolata come rapporto fra flusso luminoso emesso dalla lampada e potenza elettrica consumata) d’altra parte è un’efficienza nominale, che quindi non tiene conto della reale potenza assorbita dalle altre componenti elettroniche presenti all’interno dell’apparecchio ed inoltre non fornisce indicazioni sul flusso disperso a causa di riflessioni interne, lenti, ecc…
Per questo motivo si è scelto di incorporare questi due fattori in un coefficiente globale che tenga conto del flusso utile emesso dall’apparecchio e della reale potenza assorbita dall’apparecchio.
Generalmente per un apparecchio di illuminazione stradale è fondamentale che tutto il flusso sia rivolto verso la metà inferiore della sfera luminosa (e questo è garantito ad esempio dal rispetto delle norme contro l’inquinamento luminoso) e per questo motivo, al rendimento si preferisce il rendimento di flusso luminoso rivolta verso il basso (definito dal parametro DLor).
Questo coefficiente rende inoltre conto del reale significato fisico di rendimento, inteso come rapporto tra lavoro compiuto da un sistema e l’energia fornita al sistema (anche se nel questo caso specifico si sono prese in considerazioni potenze anziché energie).
L’efficienza luminosa viene calcolata come rapporto fra flusso luminoso diretto verso il basso e potenza totale assorbita dall’apparecchio La potenza totale assorbita invece è quella comprensiva di lampade, alimentatore, perdite, ecc.. Questa corrisponde alla potenza che si potrebbe leggere “a monte” dell’apparecchio se andassi a misurarla mentre sta funzionando.
Infine, contrariamente a quanto Forcolini indica nel suo libro dedicato ai LED, il confronto va fatto in base alle migliori tecnologie oggi disponibili sul mercato (e non confrontando l’ultimo apparecchio LED in circolazione con un apparecchio mediocre con lampada a scarica).

In base a queste considerazioni, viene definito rendimento globale di un apparecchio di illuminazione:

Un apparecchio tradizionale che monta una lampada SAP di ultima generazione a 100W (di flusso luminoso pari a 10700lm), con alimentatore elettronico di rendimento pari a 0,93 e DLor pari al 80% (consideriamo fra i migliori apparecchi in circolazione) avrà un rendimento globale di:

η = 10700*80%/108 = 79 lm/W

Prendendo invece i dati di una famosa ditta produttrice di apparecchi LED abbiamo che un apparecchio che monta 100 LED alimentati a 350mA produce un flusso luminoso pari a 10000lm ed un consumo di 127W. Dagli eulumdat si può leggere un DLor pari a 85,7% (apparecchio con ottiche applicate). In questo modo abbiamo:

η = 10000*85,7%/127 = 67 lm/W

Per un altro apparecchio illuminante a LED abbiamo invece 84 LED alimentati a 350mA, che producono un flusso luminoso di 6417lm con un consumo di 110W In questo caso abbiamo un DLor pari al 100% (apparecchio senza ottiche applicate). Il rendimento risulta quindi:

η = 6417*100%/110 = 58 lm/W

In base a queste considerazioni è possibile affermare che il rendimento di un apparecchio illuminante a LED rimane leggermente al di sotto di un apparecchio tradizionale a scarica; le cose migliorano per potenze di lampada inferiore (l’efficienza di una lampada SAP a 70W è inferiore a quella di una lampada a 100W) ma ovviamente peggiorano per potenze superiori. Il rendimento ovviamente non ci dice nulla su come si comporterà un apparecchio in una determinata installazione (questo dipende dal tipo di fotometria, come indicato sopra); è possibile però affermare che a parità di costruzione della fotometria, un apparecchio con rendimento maggiore fornirà risultati migliori.
Questo significa che tutto si gioca nelle caratteristiche distintive di ogni apparecchio e quindi la qualità dell’illuminazione non può assolutamente essere determinata solo dalle caratteristiche della sorgente luminosa, ma va accuratamente valutata in base all’apparecchio illuminante nel suo complesso.

S.V.B.E.E.Q.V.

Matteo Seraceni

 

Leggi anche:

Illuminazione stradale a LED – 1^ parte

Illuminazione stradale a LED – 3^ parte

 

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Illuminazione stradale a LED – 1^ parte redux

Illuminazione stradale LED____________________________________________________________________________________________________________Illuminazione stradale LED

a diverso tempo ormai si sente parlare dei “miracolosi” apparecchi di illuminazione a LED, capaci di garantire enormi risparmi e bassissima manutenzione; nella pratica però (vedi il disastroso esempio di Torraca) questi apparecchi spesso si sono dimostrati tutt’altro che efficienti.
Nonostante molti professionisti abbiano posto il problema con estrema serietà e correttezza, ancora oggi diversi produttori cercano di “fare i furbi” raccontando mezze verità, sperando che gli interlocutori non siano ferrati sull’argomento. Ad aggravare la situazione concorrono diversi organi di stampa, interessati più all’aspetto sensazionistico che produce questa nuova tecnologia anziché valutare il risultato pratico di queste applicazioni.
Per questo motivo mi sono sentito in obbligo (da addetto ai lavori quale sono) di approfondire le problematiche inerenti l’illuminazione stradale a LED: si parte dalla spiegazione di cos’è un LED fino ad arrivare alle simulazioni vere e proprie, per dimostrare come ad oggi un apparecchio a LED può al massimo sostituire un apparecchio che monta lampade al sodio alta pressione di medesima potenza.

Visto che sono stato accusato di essere contro “per principio” con questo articolo mi rivolgo a chi veramente vuole conoscere i numeri: si presenta pertanto come una riedizione dell’articolo apparso l’anno scorso ma con una maggiore attenzione ai dati e agli aspetti tecnici.

1. La tecnologia LED

LED è l’acronimo di Light Emitting Diode (diodo ad emissione luminosa) ed è stato sviluppato nel 1962 da Nick Holonyak Jr. Un diodo è il più semplice tipo di semiconduttore esistente: senza entrare troppo nello specifico, un semiconduttore è un materiale capace di far passare o meno elettricità in base alle caratteristiche del materiale da cui è composto.
Il LED è un semiconduttore creato da materiale poco conduttore (generalmente un composto di alluminium-gallium-arsenide), in seguito modificato (“dopato” nel gergo elettronico) per cambiare il bilanciamento interno tra le cariche positive e negative (da cui dipende la conduttività). La regione con cariche positive aggiunte è detta P-region mentre quella con cariche negative (costituite da elettroni) è detta N-region.
Quando nel diodo (o chip) non è applicato alcun voltaggio, gli elettroni di carica negativa trovano e riempiono i buchi (con carica positiva) nella zona di contatto, formando una giunzione detta anche depletion zone. In questa giunzione, tutti i buchi risultano riempiti e quindi formano una specie di barriera isolante in cui nessuna carica può circolare da una regione all’altra.

La giunzione all'interno di un diodo LED
Le cariche negative e quelle positive che vengono a contatto nella giunzione tra la P-region e la N-region e formano una zona in cui nessun elettrone riesce più a passare

Per eliminare la giunzione, bisogna far si che le cariche negative passino dalla regione N alla regione P e le cariche positive facciano l’inverso, connettendo ad esempio una batteria che, aumentano il potenziale elettrico, faccia muovere le cariche.

Movimento delle cariche
Una batteria collegata opportunamente ad un Led fa si che le cariche negative nella depletion zone si liberino e di fatto annullano la barriera tra le due regioni

Per capire cosa siano le cariche positive e negative di cui ho parlato sopra e di come queste possano produrre luce, occorre fare una breve digressione sull’atomo: la maggioranza degli atomi è composta da un nucleo (di protoni e neutroni) attorno cui si posizionano “nuvole” (orbitali più precisamente) di elettroni; su ogni orbitale, per il principio di esclusione di Pauli, si possono posizionare solo 2 elettroni. Generalmente un atomo ha un perfetto bilanciamento fra cariche positive e cariche negative.
Quando il materiale da cui è composto il semiconduttore viene drogato, uno degli elettroni degli orbitali più esterni viene a mancare, in maniera da creare una “lacuna” (e quindi anzichè neutro ora diviene positivo). L’atomo “drogato” è più instabile (e quindi ha maggiore energia); quando un elettrone riempie la “lacuna” l’atomo ridiventa stabile (e quindi a minore energia): il surplus di energia viene liberato sotto forma di fotone (cioè un pacchetto di energia che rappresenta la singola unità di luce).

Emissione di un fotone
Quando la carica negativa raggiunge quella positiva libera un fotone

In pratica un LED trasforma l’energia elettrica in energia luminosa (e viceversa).

Per quanto possa essere difficile comprendere il funzionamento del LED dal punto di vista fisico, questa descrizione è fondamentale per capire i pregi e (soprattutto) i difetti di questa tecnologia: ad esempio il superamento forzato della “barriera” neutra costituita dalla giunzione comporta un notevole surriscaldamento di questa zona (è una specie di “resistenza” all’interno del semiconduttore) e pertanto la “temperatura di giunzione” rappresenta un parametro fondamentale per la corretta gestione del LED.

I grandi produttori hanno dichiarato che nei prossimi anni investiranno gran parte dei loro capitali nello sviluppo delle apparecchiature a LED. Questa tecnologia rappresenta sicuramente il futuro dell’illuminazione in quanto garantisce numerosi vantaggi:

  • diminuzione della quantità di “materia” utilizzata per la loro produzione; rispetto ai prodotti tradizionali comporta quindi una riduzione degli ingombri e dei pesi, determinando una agevolazione nell’approvvigionamento, stoccaggio e trasporto dei materiali e nella produzione industriale;
  • ridotto contenuto di sostanze tossiche o nocive; le parti componenti dei LED sono facilmente disaggregabili, smaltibili e riciclabili (allo stesso livello dei normali diodi che si utilizzano in elettronica);
  • ridotta emissione di raggi UV ed IR;
  • lunga durata della vita media;
  • tecnologia in costante evoluzione.

Allo stato attuale esistono già buoni apparecchi di illuminazione a LED per gli ambiti ciclo-pedonali, illuminazione d’accento ed illuminazione artistica e di parchi.
Per quanto riguarda invece l’illuminazione stradale occorre sottolineare che questo è un ambito estremamente tecnico e richiede apparecchi molto performanti: generlamente oggi gli apparecchi a LED non riescono ad essere così performanti come i tradizionali apparecchi al sodio (soprattutto per quanto riguarda le potenze elevate), come verrà indicato nei paragrafi seguenti. Questo non significa che i LED non saranno mai così performanti come le lampade tradizionali: la tecnologia a LED si sta sviluppando in maniera incredibile (basti pensare che neanche 5 anni fa a stento si arrivava ai 50 lm/W) e per questo motivo è molto probabile che nei prossimi 10 anni gli apparecchi stradali con questa tecnologia sorpassino come prestazioni gli apparecchi tradizionali.
L’articolo va pertanto letto unicamente alla luce dello stato attuale della tecnologia a LED e non come negazione assoluta dell’applicazione di tale tecnologia all’illuminazione pubblica: la tecnologia LED ad oggi risulta BNAT (Best Not yet Avaiable Technology), cioè si pensa che sarà la migliore tecnologia in futuro disponibile per la pubblica illuminazione.

2. Caratteristiche dei LED

La lampada è una componente fondamentale di un apparecchio luminoso; per questo motivo occorre conoscere a fondo i parametri principali su cui basare le valutazioni delle lampade LED utilizzate.
Nell’illuminazione stradale generalmente oggi vengono utilizzati i cosiddetti “LED di potenza” (Power LED in inglese); la relazione seguente si basa quindi prevalentemente su questa tipologia di diodi LED (pur potendo essere estesa facilmente ad altre tipologie, come quelle multichip ad esempio).

2.1 Corrente di pilotaggio

I LED vengono pilotati con una corrente costante, per mantenere uniformi i valori di luminosità e temperatura colore; la corrente di pilotaggio ha infatti una diretta correlazione con diversi parametri, come il flusso luminoso emesso e la tensione all’interno del diodo (a livello intuitivo questo lo si può comprendere pensando che ad un aumento del potenziale elettrico corrisponde un aumento di particelle cariche spostate e quindi ad un aumento di fotoni emessi).

Per i LED di potenza le correnti possono variare da 100 mA a 1500 mA, con un valore tipico di 350 mA. Per valutare la potenza di funzionamento del singolo diodo occorre quindi moltiplicare la corrente per la tensione applicata, secondo la legge di Ohm: P = V * I.
La tensione applicata varia in base alla corrente secondo un grafico come quello seguente:

Grafico corrente-tensione per le ultime tipologie di power-LED

In questo caso si può vedere ad esempio come ad una corrente di 350 mA corrisponda un voltaggio di 3,2 V per un LED bianco e quindi una potenza assorbita di 1,12 W; per una corrente di 700 mA corrisponde un voltaggio di 3,4 V e quindi una potenza assorbita di 2,38 W. In realtà non è quindi vero quello che generalmente si vede stampato nelle caratteristiche delle sorgenti a LED e cioè che ogni singolo diodo assorba 1 W.

2.2 Flusso luminoso

Abbiamo visto che aumentare la corrente di pilotaggio significa aumentare il flusso luminoso emesso da un diodo LED: per questo motivo i produttori indicano il flusso luminoso emesso relativo ad una corrente di riferimento (generalmente pari a 350 mA); inoltre questo flusso è relativo ad una temperatura di giunzione di laboratorio pari a 25°C.
La variazione di temperatura di giunzione (descritta nel paragrafo successivo) e di corrente di pilotaggio comporta una notevole differenza nel flusso emesso.
Ad esempio, per lo stesso diodo LED visto sopra, abbiamo questo rapporto fra flusso emesso e temperatura di giunzione:

Grafico flusso luminoso - temperatura di giunzione
Grafico flusso luminoso – temperatura di giunzione per le ultime tipologie di power-LED

Il produttore indica per 350 mA e Tj=25°C un flusso luminoso pari a 114 lm.
Per temperature di giunzione che si aggirano attorno ai 70°C, vediamo che già il flusso si riduce del 10% circa e quindi si ottiene un flusso di circa 102 lm.

Il rapporto fra corrente di pilotaggio e flusso emesso è invece il seguente:

Grafico corrente di pilotaggio – flusso emesso per le ultime tipologie di power-LED

In questo caso si vede come a 350 mA il flusso rimanga invariato (e quindi, per una temperatura di giunzione Tj=70°C, un flusso di 102 lm); a 700 mA invece abbiamo un aumento del 170% circa (e quindi, sempre per una temperatura di giunzione Tj=70°C, un flusso di 173 lm).

A questo punto siamo quindi in grado di valutare l’efficienza luminosa nel due casi:

  • per I=350mA, Tj=70°C, abbiamo h=91 lm/W
  • per I=700mA, Tj=70°C, abbiamo h=73 lm/W

Per questo motivo è generalmente controindicato aumentare la corrente di pilotaggio al fine di aumentare il flusso luminoso (poiché alla perdita di efficienza si somma anche una diminuzione dell’aspettativa di vita del diodo LED, come vedremo in seguito).

2.3 Temperatura di giunzione

La temperatura di giunzione (indicata come Tj) risulta essere un parametro fondamentale per determinare il buon funzionamento di un LED.

Schema temperatura
Schema della dissipazione all’interno di un diodo LED

Con questo termine viene indicata la temperatura della giunzione che costituisce il nucleo del LED; la temperatura massima è determinata dal produttore del dispositivo in modo da porre un limite invalicabile per una vita operativa ragionevole del componente.
Questa temperatura è strettamente collegata al flusso luminoso emesso e alla durata: maggiore è la temperatura, maggiore la riduzione del flusso luminoso e minore la durata della sorgente LED.
Un diodo LED deve pertanto poter resistere alle alte temperature e i dispositivi di dissipazione a corredo devono essere dimensionati con cura.
Ad oggi non è possibile misurarla direttamente e le indicazioni dei vari produttori si riferiscono quindi a formule sperimentali che cercano per quanto possibile di riprodurre il comportamento della giunzione; senza entrare troppo nello specifico è facile capire che una misura non diretta può portare facilmente ad errori sperimentali, che si accumulano fino a rendere molto incerto il risultato finale. I dati inoltre si riferiscono a misure fatte in laboratorio, in condizioni al contorno stabili, che non tengono conto delle reali oscillazioni nei valori di temperatura e corrente presenti in un impianto reale.
Un dato di massima per definire la temperatura di giunzione può essere fornito della temperatura della piastra su cui il LED è saldato, poiché appare ovvio che la temperatura di giunzione sarà comunque superiore ad essa. Nelle installazioni su strada, in base a queste evidenze sperimentali, si registrano temperature di giunzione costantemente sopra i valori indicati dai produttori.
In definitiva risulta fondamentale l’apparato dissipativo posto a corredo dell’apparecchio di illuminazione: l’indicazione generale è quella di non considerare i dati forniti dal produttore come definitivi e di verificare con attenzione il metodo utilizzato nelle saldature dei diodi e la superficie e il materiale dei dispositivi di dissipazione.

2.4 Vita utile del LED

Per le sorgenti tradizionali storicamente si intende come “vita utile” il lasso di tempo intercorso dall’accensione al momento in cui una certa percentuale di lampade smette di funzionare.

Grafico Weibull per le apparecchiature elettroniche

Il parametro di riferimento è generalmente definito da una mortalità del 10% delle sorgenti luminose (indicata dalla sigla B10); una mortalità del 50% definisce invece la cosiddetta “vita media” (indicata dalla sigla B50). Per interpolare questi dati si utilizza la variabile casuale di Weibull (vedi il grafico soprastante), che definisce una curva di sopravvivenza delle sorgenti e che viene normalmente utilizzata in ambito industriale per tutte le applicazioni elettroniche.
Le sorgenti luminose a LED invece non tendono a spegnersi improvvisamente esaurita la loro vita utile: i diodi LED nel tempo diminuiscono gradualmente il loro flusso luminoso iniziale fino ad esaurirsi completamente in un periodo molto lungo (a meno di rotture improvvise ovviamente).
Per questo motivo occorre provvedere con termini di confronto che sono del tutto diversi da quelli utilizzati oggi.
Il parametro più utilizzato nella definizione di vita utile è stato definito da un gruppo industriale produttore di Power LED, la “Alliance for Solid-State Illumination Systems and Technologies” (ASSIST), la quale ha determinato che il mantenimento del 70% del flusso iniziale corrisponde al limite inferiore al di sotto del quale l’occhio umano percepisce una riduzione della luce emessa (e quindi si può supporre che una riduzione del flusso iniziale del 30% sia accettabile per la maggioranza delle applicazioni): per questo motivo viene definita come vita utile di un LED il tempo trascorso prima che venga raggiunto questo limite (indicato generalmente come L70 che sta per “lumen maintenance 70%”).

Per definire il mantenimento del flusso luminoso nel tempo esistono diverse metodologie; ad oggi la più usata risulta quella definita dallo standard IES LM-80 – Measuring lumen maintenance of LED light sources. Il metodo si basa sulla misurazione del flusso luminoso di una sorgente LED pilotata a seconda delle correnti definite dal produttore a tre diverse temperature (55°C, 85°C ed una terza a scelta) e per un periodo di tempo non inferiore a 6000 ore (con misurazioni almeno ogni 1000 ore). Questo test non dà specifiche riguardo all’eventuale previsione di decadimento e quindi di vita utile attesa al di fuori delle ore di prove effettuate: tutto quello che si può fare è fornire quindi un’interpolazione sui dati raccolti, come indicato nel grafico seguente:

Grafico durata vita
Grafico che rappresenta l’interpolazione per il calcolo della durata di un LED

In questo caso il produttore ha definito come tempo massimo di interpolazione un tempo pari a 6 volte il tempo realmente impiegato nel test, poiché è risaputo che l’incertezza sperimentale in questo genere di interpolazioni aumenta esponenzialmente con l’aumentare del tempo previsto: questo grafico pertanto è solo un’indicazione di massima, poiché in realtà l’incertezza è estremamente elevata a 150000 h. Se pensiamo ad una media di 4200 ore di funzionamento all’anno significa fare una stima su 35 anni di vita basandosi sul funzionamento di circa 1 anno e mezzo.

Basandosi su queste evidenze sperimentali si può osservare come estremamente importanti ai fini di una buona durata del diodo LED non siano solo la temperatura di giunzione e la corrente di pilotaggio, ma anche la temperatura dell’ambiente circostante e la capacità dissipativa della piastra su cui sono saldati i LED.
Dai seguenti grafici si può osservare come l’aumento della temperatura di giunzione, della temperatura dell’ambiente circostante o l’aumento della corrente di pilotaggio porti ad una drastica riduzione della vita utile (ovviamente tutti i risultati presentati sono solo estrapolazioni dei dati sperimentali).

Grafico vita corrente
Grafico rapporto durata vita- temperatura giunzione in funzione della temperatura ambiente
Grafico rapporto durata vita- temperatura giunzione 2
Grafico rapporto durata vita- temperatura giunzione in funzione della corrente di pilotaggio

Come già detto in precedenza, a livello sperimentale risulta abbastanza complicato definire una durata attesa di oltre 100000 h sulla base di sole 6000 h di funzionamento; inoltre mancano del tutto informazioni relative alla percentuale di sorgenti a LED il cui flusso risulta al di sotto dei risultati attesti, perché se è vero che quasi nessun diodo LED nelle prove sperimentali si spegne improvvisamente, è altrettanto vero che molti di questi presenteranno un flusso luminoso al di sotto delle curve di interpolazione presentate nei grafici sovrastanti.
Per questo motivo appare meritevole l’indicazione di alcuni produttori anche della percentuale di lampade che si attestano su valori di flusso luminoso al di sotto del delta dei valori attesi per la curva considerata (in questo modo tale percentuale di fallimento sostituisce la percentuale di mortalità delle vecchie lampade).
Dai grafici sottostanti si può osservare come passare da una percentuale di fallimento del 50% ad una del 10% comporti una restrizione notevole nei valori di aspettativa di vita utile.

Grafico rapporto durata vita- temperatura giunzione 1
Grafico rapporto durata vita- temperatura giunzione con B50
Grafico rapporto durata vita- temperatura giunzione 2
Grafico rapporto durata vita- temperatura giunzione con B10

I grafici presentati sono sicuramente più completi, in quanto definiscono due diverse versioni in base alla percentuale di fallimento attesa.
Inoltre è degno di nota il fatto che le curve sono state “tagliate” a 60000 ore di effettivo utilizzo poiché a detta dello stesso produttore, anche in presenza di dati statistici significativi, è opportuno limitare la durata di vita attesa a valori comunque certi (poiché sembra logico prevedere una durata minore e poi eventualmente sbagliarsi che prevederne una maggiore e poi accorgersi che il funzionamento non è quello atteso).

Questa lunga digressione sulla durata della vita ed il mantenimento del flusso risulta fondamentale per definire un corretto coefficiente di manutenzione di un apparecchio di illuminazione a LED.
Definito infatti il coefficiente di manutenzione (secondo CIE 154:2003  – The Maintenance of outdoor lighting systems)come U = LLMF x LSF x LMF, abbiamo che il coefficiente LLMF (Lamp Lumen Maintenance Factor) rappresenta il mantenimento del flusso luminoso a fine vita della sorgente luminosa (pari pertanto a 0,70 nel caso di L70), mentre LSF (Lamp Survival Factor) rappresenta la percentuale di sorgenti sopravvissute a fine vita (pari pertanto a 0,90 nel caso di B10; in questo caso la sorgente non si spegne ed ha solo un flusso inferiore a quello stabilito, ma agli effetti del calcolo appare prudente non tenerne conto o comunque pensare alla resa delle sorgenti difettose come pari a metà di quella sana. In questo caso allora per B10 si avrebbe LSF=0,95). Il parametro LMF (Luminaire Maintenance Factor) dipende invece dallo sporco accumulatosi sull’apparecchio, dalle condizioni atmosferiche e dall’intervallo di manutenzione; per un’installazione stradale tipica può aggirarsi attorno allo 0,90 – 0,95 con intervalli di manutenzione di 2 – 3 anni.
In base a questi dati risulta che il coefficiente di manutenzione è ben lungi dallo 0,80 utilizzato normalmente nei calcoli illuminotecnici per le applicazioni stradali.

2.5 Temperatura di colore

La temperatura di colore, la cui unità di misura è il Kelvin (K), ha come riferimento l’emissione del corpo nero o la curva di Plank; ricordiamo che in fisica un corpo nero è un oggetto che assorbe tutta la radiazione elettromagnetica incidente (e quindi non ne riflette) ed il cui spettro dipende unicamente dalla sua temperatura.
Lo spettro luminoso emesso da un corpo nero presenta un picco di emissione determinato, in base alla legge di Wien, esclusivamente dalla sua temperatura.

Spettro corpo nero
Spettro del corpo nero

Una sorgente reale, pur essendo abbastanza differente da un corpo nero, conserva questa proprietà e quindi in generale ad una temperatura bassa corrisponde ad un colore giallo-arancio, mentre un’alta temperatura corrisponde ad un colore azzurro.

Una sorgente a LED nasce come sorgente quasi monocromatica, il cui colore dipende dal materiale utilizzato nella sua fabbricazione; per le applicazioni stradali vengono utilizzati semiconduttori InGaN, che hanno spettro luminoso tendente al blu e che ad oggi determinano il massimo flusso luminoso possibile per un diodo LED.
Per ovviare a questo inconveniente e produrre emissioni su tutto lo spettro del visibile si ricorre alla cosiddetta “conversione della luminescenza”; questo metodo consiste nell’applicazione di uno strato di fosfori al diodo in modo da convertire parte della radiazione nelle porzioni di spettro rosso e verde mancante. La resa cromatica in questo caso viene penalizzata per la quasi assenza nello spettro emesso della componente rossa, come indicato nel paragrafo seguente.
Un metodo che produce risultati più soddisfacenti, ma che penalizza purtroppo le prestazioni del LED, è quello di applicare una combinazione di fosfori tricromatici, in modo da convertire tutta la radiazione nella banda del visibile.
In ogni modo la temperatura di colore del bianco prodotto dipende dalla quantità di fosforo usata nel rivestimento: la luce “bianca fredda” (o “cold white”) viene prodotta diminuendo la quantità di fosfori, la luce “bianca calda” (“warm white”) viene prodotta aumentandola.

Schema temperatura di colore
Schema delle varie temperature di colore

E’ facile intuire che la massima efficienza luminosa si ottiene applicando la minima quantità di fosfori possibile; in questo caso lo spettro emesso, definito “cold white” per la dominante blu (dai 6500 K circa in su), non appare molto indicato per l’illuminazione esterna per diversi motivi:

  • luce emessa fredda e con dominante bluastra
  • maggiore senso di abbagliamento
  • appiattimento dei contorni

Per ottenere sorgenti luminose con temperature di colore minori, denominate “natural white” (dai 4000 K circa ai 6000 K circa) o “warm white” (4000 K circa o meno), che determinano una migliore qualità della luce, occorre aumentare la quantità di fosfori applicati: questo fa calare drasticamente le prestazioni delle sorgenti LED e pertanto temperature di luce più calde hanno rese luminose fino al 40% inferiori.

2.6 Costanza del colore

Il procedimento di fabbricazione dei LED e di applicazione dei fosfori è un procedimento delicato e passibile di errori: per questo motivo si è scelto di suddividere le zone di appartenenza cromatica dei vari lotti prodotti in diversi settori (chiamati bin) definiti sul diagramma di cromaticità CIE 1931, sulla base di ellissi di MacAdam più o meno ampie (l’ANSI propone ad esempio un diametro di 4-step). In questo modo anziché cambiare il procedimento di produzione per ogni diversa tipologia di LED è possibile definire a posteriori l’area di omogeneità di colore.
Ovviamente il costo richiesto per diodi LED aumenta tanto più stringente si fa l’area di escursione dei bin.

Per stabilire la temperatura di colore della sorgente a LED si fa riferimento alla temperatura di colore correlata (CCT), costituita dai segmenti isotemperatura che incrociano la curva del luogo plankiano.
Ai fini dell’illuminazione stradale appare importante garantire una certa omogeneità nel colore delle sorgenti a LED, in quanto appare evidente che la forte escursione lungo la scala cromatica potrebbe generare un affaticamento nel compito visivo.

Le tabelle seguenti indicano una possibile suddivisione in bin per LED “cold white” (primo grafico) e “neutral white” e “warm white” (secondo grafico).

bin LED
Schema di BIN tipici per power LED

2.7 Indice di Resa cromatica

L’Indice di Resa Cromatica Ra (chiamato in inglese CRI, Color Rendering Index), è una valutazione qualitativa sull’aspetto cromatico degli oggetti illuminati e non va confusa con la temperatura di colore: due sorgenti con temperatura di colore identica possono avere un Ra diverso, come indicato dalla tabella seguente.
Questo parametro indica in che modo una sorgente è in grado di mantenere inalterato il colore di un oggetto da essa illuminato: varia in una scala da 0 a 100, dove 0 rappresenta il minimo e 100 indica il massimo di Resa Cromatica.
Il metodo, definito dallo standard CIE 13.3-1995, si basa sul calcolo delle differenze che una serie di campioni di colore presenta al variare dell’illuminazione della sorgente di riferimento rispetto a quella in esame: proprio per l’arbitrarietà sulla scelta dei colori presi in considerazione, questo indice rappresenta un valore abbastanza soggettivo. Può accadere infatti che sorgenti con lo stesso Ra emettano bande di colore molto diverse fra loro, oppure è possibile avere una sorgente con un elevato Ra che non abbia alcuna emissione dello spettro in diverse lunghezze d’onda (come appunto avviene per le sorgenti LED).

Spettro di emissione tipico di un LED a luce bianca
Spettro di emissione tipico di un LED a luce bianca

La migliore emissione possibile per l’occhio umano dovrebbe corrispondere ad una emissione continua lungo tutto lo spettro, senza picchi o avvallamenti.
Come si può notare dal grafico soprastante, che definisce l’emissione di una tipica sorgente a LED, lo spettro non è continuo, perché presenta un gap enorme sull’emissione del rosso; una lampada a ioduri metallici ad esempio ha uno spettro più continuo e quindi una valenza cromatica sicuramente maggiore, come si può vedere dal grafico sottostante.

Spettro di una lampada ad alogenuri metallici
Spettro di una lampada ad alogenuri metallici

Questa intuizione sperimentale viene ribadita dal rapporto CIE 177:2007, nel quale la commissione internazionale per l’illuminazione ha stabilito che il CRI non può essere applicato alle moderne sorgenti bianche a LED. Si può leggere infatti che il parametro di resa cromatica “generalmente non può venire applicato per definire un indice di classificazione di resa cromatica di una serie di sorgenti luminose in cui siano inserite sorgenti bianche a LED” e che “l’applicazione dell’indice di resa cromatica correntemente definito dalla CIE (secondo lo standard del 1995) è notevolmente limitata se riferita alle sorgenti bianche a LED. Infatti è possibile ad esempio che sorgenti storicamente ritenute con CRI elevato possano venire visualmente classificate al di sotto di sorgenti bianche a LED che in realtà avrebbero CRI minore”.
Alla luce di queste evidenze sperimentali risulta necessario riconsiderare l’indice di resa cromatica come parametro di valutazione per le sorgenti LED; in particolar modo si consiglia di seguire le seguenti raccomandazioni:

  1. il CRI può essere un parametro da tenere in considerazione se la restituzione fedele dei colori è fondamentale per il compito visivo considerato;
  2. il CRI generalmente andrebbe valutato solo tra sorgenti con la medesima temperatura colore;
  3. differenze sotto ai 5 punti di valutazione non sono significative per la distinzione di due diverse sorgenti luminose (ad esempio due sorgenti rispettivamente con CRI 80 o CRI 84 sono essenzialmente identiche);
  4. occorre valutare sempre la resa degli apparecchi a LED dal vivo e di persona.

3. Valutazioni sull’Indice di Resa Cromatica e la norma UNI 11248

In base alla nuova normativa il progettista illuminotecnico assume un’importanza fondamentale nella corretta valutazione ed individuazione delle soluzioni più opportune per ogni ambito progettuale.
La norma UNI 11248 individua le prestazioni illuminotecniche degli impianti di illuminazione e, per far questo, delinea una categoria illuminotecnica di riferimento per ogni tipologia di strade.
In base all’analisi dei rischi ed ai parametri di influenza considerati dal progettista illuminotecnico, viene quindi definita una categoria illuminotecnica di progetto, grazie alla quale verrà effettuato il progetto di massima per ogni zona di studio presa in considerazione.
Infine, in base al flusso di traffico effettivo presente nelle varie ore della giornata, è possibile definire più categorie illuminotecniche di esercizio su cui effettuare eventuali sconti di categoria.

Poiché le sorgenti a LED generalmente non presentano un’efficienza paragonabile alle sorgenti a scarica, diversi produttori cercano di colmare il divario basandosi sul prospetto 3 della norma UNI 11248, il quale afferma che sorgenti con Ra>60 possono usufruire di uno sconto di categoria nell’analisi dei rischi.
Questi valori però, come cita la norma stessa “sono forniti a titolo informativo”, cioè non hanno valore normativo e possono pertanto essere modificati o ampliati in base alle necessità riscontrate dal progettista illuminotecnico. Ogni progetto illuminotecnico rappresenta un caso a sé e quindi risulta impossibile definire “a priori” la possibilità o meno di uno sconto di categoria.

Occorre capire che non è il coefficiente di resa cromatica a definire una migliore visione notturna, ma la luce bianca (che, in via convenzionale, viene ricondotta ad un Ra>60); abbiamo già visto le problematiche insite nella valutazione dell’Indice di Resa Cromatica per una sorgente bianca a LED ed inoltre il “buco” presente attorno ai 500 nm potrebbe non garantire una capacità scotopica paragonabile ad esempio a quella delle sorgente a ioduri metallici (come indicato in seguito).
Negli ultimi anni infatti diverse università ed agenzie di ricerca hanno dimostrato che sorgenti a luce bianca possono comportare un miglioramento delle prestazioni in ambito notturno, ma solo per la visione periferica.

Riguardo a questo ultimo punto appare doveroso un ulteriore approfondimento: è noto che il CIE ha definito due curve di ponderazione, riportate nel disegno sottostante, che misurano l’efficienza visuale a varie lunghezze d’onda nel caso di luminosità diurna (curva bianca – visione fotopica) e notturna (curva nera – visione scotopica).
Dal grafico si può notare come la visione fotopica abbia un picco corrispondente alle lunghezze d’onda di una luce giallo-verde, mentre quella scotopica di una luce azzurra: lo spostamento del massimo di sensibilità, dovuto all’utilizzo prima dei coni e poi dei bastoncelli è denominato effetto Purkinije.

Curve di visibilità
Curve di visibilità

I bastoncelli, che funzionano in condizioni di bassa visibilità, vedono meglio il blu di quello che fanno i coni, i quali possono vedere luce profondamente rossa, luce che per i bastoncelli appare nera. Lo possiamo sperimentare di persona prendendo due pezzi di carta colorata rossa e blu: in condizioni di buona luminosità, risulta più luminoso il pezzo rosso, passando all’oscurità l’effetto si inverte.
A livello internazionale, è stata scelta la curva fotopica per “mediare” i valori del flusso luminoso uscente dalle singole sorgenti.
Questo però porta a due problemi: il primo è dovuto al fatto che l’illuminazione stradale si colloca in un ambito che non è né fotopico né scotopico e che viene appunto chiamato mesopico (definito generalmente dall’intervallo di luminanza compreso fra 0,001 e 3 cd/mq); il secondo, strettamente legato al primo, è quello che in tale ambito la valenza della curva di ponderazione fotopica non è del tutto esatta e vale solo per angoli di visione estremamente piccoli.
Negli ultimi anni sono stati condotti diversi studi sull’illuminazione mesopica, di cui alla fine dell’articolo sono forniti alcuni esempio che probabilmente confluiranno nel documento di studio denominato CIE TC1-58.
Grazie a questi studi è emerso che la sensibilità spettrale dell’occhio non cambia quando i livelli di illuminazione raggiungono l’area mesopica per angoli visuali ristretti e quindi la curva fotopica V(λ) rimane una misura valida per la visione foveale a basse luminanze . Invece, in situazioni in cui le informazioni vengono catturate anche da una visione periferica (angolo visivo di 15°-20°), i bastoncelli assumono un ruolo dominante: in questi casi una lampada con forte componente blu dello spettro luminoso apporterebbe miglioramenti alla visione periferica e quindi all’identificazione di oggetti fuori dal campo foveale, soprattutto col diminuire della luminosità.

Angoli di visione notturna
Angoli di visione notturna

I modelli di curve mesopiche proposti da questi studi e da successive modificazioni indicano un aumento relativo della luminosità percepita con sorgenti a forte componente blu dello spettro (con alto indice S/P e cioè rapporto fra ponderazione scotopica e ponderazione fotopica) per la visione periferica, così come indicato dalla tabella sottostante:

Tabella di visibilità mesoscopica
Tabella di visibilità mesopica

Questa tabella ci dice ad esempio che, per una lampada a sodio alta pressione (HPS), anzichè 1 cd/mq, in condizioni mesopiche vengono percepite 0,927 cd/mq; per una lampada a luce bianca, come quelle agli alogenuri (MH) anzichè 1cd/mq si percepiscono 1,18 cd/mq.
Ancora più evidente è una tabella in cui, in base ai vari rapporti S/P  (per una lampada ad alogenuri ed un LED indicativamente si considera S/P=2,35) vengono indicate le divergenze percentuali fra la luminanza percepita secondo il “vecchio” modello fotopico ed il nuovo “mesopico”:

Tabella di visibilità mesoscopica in percentuale
Tabella di visibilità mesopica in percentuale

Questo schema ci dice due cose:

  1. Una sorgente a luce bianca diviene fondamentale allorché ci siano precise esigenze di visione periferica (visibilità dei pedoni sul marciapiede e degli ostacoli laterali)
  2. Lo sconto di categoria proposto dalla UNI 11248 può venire proposto solo per basse luminanze (inferiori alle 0,75 cd/mq e quindi solo per strade inferiori alla categoria ME4): infatti, come si legge dal grafico, nel caso di una luminanza di 1 cd/mq di riferimento (cioè seguendo l’attuale ponderazione fotopica) abbiamo per una lampada al sodio 0,927 cd/mq (riduzione del 7%) che non giustifica l’aumento di una categoria, così come proposto dalla UNI 11248 e, ancora più importante, per una lampada a luce bianca 1,18 cd/mq (aumento del 18%) che ancora non giustifica lo sconto di categoria. Solo per una luminanza di 0,3 cd/mq abbiamo per una luce bianca 0,39 cd/mq (aumento del 30%) e quindi una giustificazione dello sconto di categoria.

Sarebbe pertanto auspicabile che la UNI 11248 venisse modificata in modo tale da prendere in considerazione questi parametri, piuttosto che fornire generiche informazioni riguardo alle possibili declassificazioni (visto che nella corrispettiva norma prEN UNI 13201:1 non vi è traccia dei parametri indicati nella tabella della UNI 11248).

Mi rendo conto che il tema è molto spinoso e pertanto risulta difficile esaurirlo in queste poche righe (cui spero di sopperire presto con un articolo dedicato): quanto detto vale unicamente come spunto di riflessione per tutti coloro che pretendono l’immediata declassificazione delle strade in qualsiasi condizione e per qualsiasi categoria illuminotecnica.

S.V.B.E.E.Q.V.

Matteo Seraceni

Leggi anche:
Illuminazione stradale a LED – 2^ parte redux

Illuminazione stradale a LED – 3^ parte

 

Riferimenti:

Normativa sistemi LED per l’illuminazione:

  • CEI EN 62031:2009 – Moduli LED per illuminazione generale – Specifiche di sicurezza
  • CEI EN 61347-2:2007 – Unità di alimentazione di lampada – Parte 2-13: Prescrizioni particolari per unità  di  alimentazione  elettroniche  alimentate  in  corrente  continua  o  in corrente alternata per moduli LED
  • UNI EN 13032-1:2005 – Luce  e  illuminazione  –  Misurazione  e  presentazione  dei  dati  fotometrici  di lampade e apparecchi di illuminazione
  • CIE 127:2007 – Measurement of LEDs
  • Draft IEC 62504 – Terms and definitions for LEDs and LED modules in general lighting
  • Draft IEC 62560 – Self-ballasted  LED-lamps  for  general  lighting  services  >50  V  –  Safety specifications
  • Draft IEC 62612 – Self-ballasted LED-lamps for general lighting services >50 V – Performance requirements
  • Draft IEC 61341 – Method  of  measurement  of  centre  beam  intensity  and  beam  angle(s)  of reflector lamps – including LED
  • IES LM – 79-08 – Electrical and Photometric Measurements of Solid-State Lighting Products
  • CIE TC2-46 – CIE/ISO standards on LED intensity measurements
  • CIE TC2-50 – Measurements of the optical properties of LED clusters and arrays
  • CIE TC2-58 – Measurements of LED radiance and illuminance
  • CIE TC2-63 – Optical measurements of high-power LEDs
  • CIE TC2-66 – Terminology of LEDs and LED assemblies

Tecnologia a LED per l’illuminazione:

  • G. Forcolini, Illuminazione LED, HOEPLI : Milano
  • AFE, LED ou lampes en éclairage public.De quoi s’agit-il?, in « Point de vue de l’AFE » numero 11 – 5 ottobre 2009
  • S. Onaygil, Ö. Güler and E. Erkin, LED TECHNOLOGIES IN ROAD LIGHTING, CIE convention in Budapest of 27-29 May 2009
  • L. Di Fraia (a cura di), Illuminazione a LED oggi: chimera o realtà?, convegno del 13 marzo 2009 all’ Università di Napoli Federico II
  • CSS Street Lighting Project, SL1/2007 – Review of the class and quality of street lighting
  • Guida di CieloBuio ai LED: 1^parte e 2^parte

Schede tecniche diodi power-LED:

Illuminazione in campo mesopico:

  • CIE, Mesopic photometry: history, special problems and pratical solutions, CIE Central Bureau CIE 81
  • Bullough, John D. and Mark S. Rea, Visual Performance Under Mesopic Conditions, TRB, National Research Council, 2004, Transportation Research Record: Journal of the Transportation Research Board
  • M. Eloholma, M. Viikari et al., Mesopic models – from brightness matching to visual performance in night-time driving: a review, Lighting Res. Technol. 37,2 (2005)
  • Y. He MS, A. Bierman MS and M. Rea PhD, A system of mesopic photometry, Lighting Res. Technol. 30,4 (1998)
  • Eloholma  M,  Halonen  L,  New  model  for  mesopic photometry  and  its  application  to  road lighting, LEUKOS 2(4):263-93
  • M. Eloholma,  J. Ketomäki,  P. Orreveteläinen  et  al., Visual  performance  in  night-time  driving conditions, Ophthal Physiol 25:1-10
  • A. Freiding, M. Eloholma, J. Ketomäki, et al., Mesopic visual efficiency I: Detection threshold measurements,  Lighting Res Technol. 39
  • H. Walkey, P. Orreveteläinen, J. Barbur, et al., Mesopic visual efficiency II: Reaction time experiments,  Lighting Res Technol. 39
  • G. Várady, A. Freiding, M. Eloholma, et al., Mesopic visual efficiency III: Discrimination threshold measurements,  Lighting Res Technol. 39
  • T Goodman, A Forbes, H Walkey, et al., Mesopic visual efficiency IV: A model with relevance to nighttime driving and other applications,  Lighting Res Technol. 39
  • CIE TC1-58 – Visual performance in the mesopic range
  • CIE TC2-65 – Photometric measurements in the mesopic range

Sicurezza dei sistemi LED:

  • G. C. Brainard , J. P. Hanifin, et al., Action spectrum for melatoninregulation in humans: evidence for a novel circadian photoreceptor, Journal of Neuroscience, 21(16).
  • G. Glickman, R. Levin, G. C. Brainard, Ocular Input for Human Melatonin Regulation: Relevance to Breast Cancer, Neuroendocrinology Letters, 23 (suppl 2)
  • E. Haus, M. Smolensky, Biological clocks and shift work: circadian dysregulation and potential long-term effects, Cancer Causes Control 17
  • K. Navara, J. Nelson, The dark side of light at night: physiological, epidemiological, and ecologicalconsequences, J. Pineal Res. 43
  • CIE TC6-55 – Photo-biological safety of LEDs

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Illuminazione pubblica a LED – intermezzo

Purtroppo sono una persona che quando legge un giornale non prende la cosa alla leggera e pretende che gli articoli, soprattutto quelli tecnici, siano in qualche modo sorretti da precisi riferimenti bibliografici (potete quindi immaginare, visto lo stato della stampa italiana, il sentimento con cui ogni giorno mi accingo a leggere un giornale).  Per questo motivo la lettura dell’articolo dell’ing. Paolo Soardo uscito sul numero dell’ 11-15 giugno 2009 del “Giornale dell’Ingegnere” ha suscitato in me un senso di profonda inquietudine e stupore.

copertina1
In prima pagina infatti si legge che, secondo l’ing. Soardo, le “leggi regionali degli ultimi anni […] con prescrizioni dettagliate […] di fatto bloccano l’innovazione ed aumentano i consumi energetici.[1]
Ora, siamo sicuri che l’ UNI sia un organo di tutto rispetto, ma mi pare che liquidare in questa maniera leggi approvate da organi altrettanto degni di rispetto sia perlomeno ingiusto; inoltre sminuire in questo modo le leggi regionali rischia di travisare il carattere di fondo con cui sono state costituite, che è quello della limitazione delle dispersioni della luce verso l’alto ed una maggiore attenzione ai consumi energetici degli impianti. Perché se da un lato è vero che il cosiddetto “inquinamento luminoso” solo in minima parte è provocato dal flusso diretto delle sorgenti luminose verso la sfera celeste, appare altrettanto ovvio che limitare queste dispersioni non può che giovare all’economia di un impianto di illuminazione. Inoltre l’adozione da parte di alcun leggi regionali di un rapporto minimo di interdistanza/altezza (affiancato ovviamente all’indicazione di garantire le cd/mq richieste dalle categorie illuminotecniche, senza eccedere nei risultati) limita notevolmente i consumi possibili nelle installazioni stradali.
Negare queste istanze significa voler ancora una volta rimanere impassibili di fronte alle richieste di molti cittadini (non solo associazioni di astrofili) che ritengono loro diritto poter osservare il cielo stellato sopra le loro teste, limitando i consumi (anziché aumentandoli come afferma l’ing. Soardo) ed ottimizzando i sistemi di illuminazione; non esistono solo gli utenti delle strade o i produttori di corpi illuminanti, esistono anche le persone e animali e piante che devono convivere con questi sistemi.
Da che mondo è mondo poi non sono mai state le leggi a bloccare l’innovazione (tanto più leggi regionali se mi è permesso), semmai i conflitti fra poteri contrastanti o le leggi di mercato.

Passando quindi al resto dell’articolo, a pagina 4 dello stesso numero l’ing. Soardo giustamente cita la norma di riferimento per gli impianti di illuminazione stradale, la UNI 11248, e riconosce che la “norma prescrive solo categorie illuminotecniche di riferimento peri vari tipi di strada, che il progettista può modificare in base ad un analisi dei rischi, valutando una serie di parametri di influenza di cui la norma riporta qualche esempio, per indirizzare, ma non imporre, le scelte progettuali[1] [Ndr: il grassetto è mio].

prospetto
Fino a qui tutto bene. Poi, così, di punto in bianco, Soardo lancia la sua “boutade”, dicendo che “con la luce bianca si risparmia il 50% di energia rispetto agli impianti attuali dotati di lampade al sodio alta pressione”. Questo dato, a dir poco fantasmagorico, viene giustificato in base al fatto che “da tempo è noto che l’impiego di luce bianca con indice di resa dei colori superiore a 60 agevola la percezione degli ostacoli in visione periferica ed i condizioni mesopiche”.
A parte la totale assenza dei riferimenti bibliografici da cui queste informazioni sono state prese (tanto più in virtù del fatto che l’affermazione sul risparmio è molto pesante), mi sembra molto poco pofessionale presentare questi dati senza nemmeno un esempio pratico di come questo risparmio potrebbe venire conseguito.

1) Un primo paragone

Bene, a questo sopperisco io: prendiamo come esempio una “classica” strada italiana, con carreggiata di 6m, installazione unifilare a 7m e categoria di riferimento ME4b. Per rendere le cose più interessanti consideriamo un apparecchio che monta la lampada al sodio meno performante, quella da 70W e lo confrontiamo con uno dei migliori apparecchi a LED in circolazione, con la stessa tipologia di installazione.

L’apparecchio a LED è un apparecchio fra i più performanti in circolazione, monta 60 LED alimentati a 350 mA ed ha un consumo complessivo di circa 75 W. I calcoli illuminotecnici non sono miei, ma mi sono stati forniti dalla stessa ditta (così non si può dire che baro 🙂 ):

RUUD1a

RUUD1bVorrei far notare come il coefficiente di manutenzione sia 0,90 e, seppur non lo condivido, ho voluto lasciare apposta i calcoli così come sono.

L’apparecchio a sodio alta pressione invece monta un alimentatore elettronico ed assorbe 75 W (quindi la medesima potenza) ed è montato alla stessa interdistanza:

Philips1Philips2

Come si può vedere, l’apparecchio a LED non consuma di meno; inoltre l’apparecchio a SAP ha le stesse prestazioni con un coefficiente di manutenzione più basso: per entrambi i casi si può stimare un consumo di circa 2,68 W/m.

A questo punto sento già l’obiezione: ma lo sconto di categoria? Facciamo pure i calcoli con lo sconto di categoria, supponendo che non esistano  lampade SAP con indice di resa cromatica maggiore di 60 (cosa che al contrario è vera e quindi qualsiasi beneficio usufruito dai LED può benissimo essere esteso ai SAP con indice di resa cromatica più elevato). Grazie a questo sconto, possiamo utilizzare un apparecchio a 40 LED ora.
Ma se facciamo i pignoli, bisognerebbe pure ritoccare il coefficiente di manutenzione che, come già ho spiegato, per un LED dovrebbe essere almeno di 0,73.

RUUD2a

In questo caso abbiamo un interdistanza di 26m, per un  consumo di circa 1,92 W/m, pari al 28% in meno della sorgente a sodio alta pressione. Insomma: rispetto alla peggiore lampada al sodio in circolazione il migliore degli apparecchi LED, usufruendo anche dello sconto di categoria  riesce a risparmiare solo il 28% (in fondo c’era da aspettarselo, visto che passare da 0,75 cd/mq a 0,50 cd/mq c’è un salto di circa il 33%)! Dove è finito il millantato 50% ?!?
Inoltre va notato che l’indice di abbagliamento risulta proprio al limite massimo superiore (cosa che, sommata alla luce bianca, potrebbe provocare effetti fastidiosi).

Ma parliamo di soldi

Voglio essere buono. Ammettiamo pure che coi LED si risparmi il 50%, come dice l’ing. Soardo, e quindi, a titolo esemplificativo, consideriamo 1 km di linea come vista sopra: per un interasse di 28 m avremo circa 35 apparecchi di illuminazione.
Considerando 2,68 W/m e 4000h di funzionamento, avremo un consumo di 10720 kWh-anno a chilometro; un risparmio del 50% comporta quindi un risparmio di 5360 kWh-anno a chilometro.
Il costo dell’energia oggi si aggira attorno a 0,12 euro/kWh e quindi abbiamo un risparmio annuo per chilometro di installazione di circa 643 euro.
Bene. Ora calcoliamo quanto costano gli apparecchi: un apparecchio SAP costa mediamente 250 euro (compresa installazione), mentre un apparecchio LED si aggira sugli 800 (compresa installazione). Per 35 punti luce pagheremo 8.750 euro per i SAP e 28.000 euro per i LED, con una maggiorazione di costo di 19.250 euro quindi se volessimo comprare i LED (per risparmiare questo famigerato 50%) a chilometro pagheremo in più 19.250 euro.
Ora è facile calcolare l’ammortamento di questo investimento: 19.250 euro / 643 euro che fa circa 30 anni!

In realtà questi soldi non si ammortizzeranno mai, perchè dopo 15 anni (le famigerate 60000h) i LED saranno da sostituire, con ulteriori costi che si sommeranno agli investimenti iniziali, senza possibilità di ammortamento.

Per ulteriori confronti fra sorgenti tradizionali e sorgenti a LED vi lascio alla terza parte degli articoli dedicati. Per ora questa breve dimostrazione era incentrata a dimostrare che parlare è facile, ma dimostrare le cose risulta molto arduo.
Inoltre nessun calcolo illuminotecnico può sostituire la valutazione sul campo: consiglio a tutti quelli che affermano ancora che il solo fatto di installare sorgenti a LED possa apportare a risparmi immediati di visitarsi Torraca, oppure di comprarsi un LED e fare i confronti dal vero di illuminazione e consumi.

2) Una doverosa precisazione

Dopo aver letto le affermazioni dell’ing. Soardo mi sono quindi sentito in dover di rispondere, per fare finalmente chiarezza.

copertina2

Di seguito pertanto vi ripropongo la mia lettera pubblicata a pag.11 del numero del 15 settembre 2009 del “Giornale dell’Ingegnere” [Ndr. il testo non è in corsivo pur essendo una citazione, in quanto è comunque espressione del mio pensiero]:

UNI 11248 e tabella 2

In base alla nuova normativa il progettista illuminotecnico assume un’importanza fondamentale nella corretta valutazione ed individuazione delle soluzioni più opportune per ogni ambito progettuale.
La norma UNI 11248 individua le prestazioni illuminotecniche degli impianti di illuminazione e, per far questo, delinea una categoria illuminotecnica di riferimento per ogni tipologia di strade.
In base all’analisi dei rischi ed ai parametri di influenza considerati dal progettista illuminotecnico, viene quindi definita una categoria illuminotecnica di progetto, in base alla quale verrà effettuato il progetto di massima per ogni zona di studio presa in considerazione e considerando un flusso di traffico pari al 100% di quello associato al tipo di strada.
Infine, in base al flusso di traffico effettivo presente nelle varie ore della giornata, è possibile definire più categorie illuminotecniche di esercizio (come illustrato nella figura A.1 presente nella norma stessa) su cui effettuare eventuali sconti di categoria.
Se è vero che un ingegnere accorto e competente può sopperire a questo compito in maniera adeguata è altrettanto palese che la maggioranza dei professionisti del settore risulta essere spaesata e confusa. Valga per tutti il prospetto 3 della norma UNI 11248 riportata nell’articolo dell’ing. Soardo: tale schema rappresenta un esempio della possibile variazione di categoria illuminotecnica in relazione ai parametri di influenza emersi dall’analisi dei rischi. Questi valori, come cita la norma “sono forniti a titolo informativo”, cioè non hanno valore normativo e possono pertanto essere modificati o ampliati in base alle necessità riscontrate dal progettista illuminotecnico. Ad esempio qualora un progettista, affrontando il progetto di illuminazione di una strada in montagna, ritenesse l’attraversamento di animali durante le ore notturne fonte di pericolo, potrebbe avere tutte le ragioni ad aumentare la classe di riferimento. Allo stesso modo un progettista che ritenesse l’indice di resa colori un parametro non significativo potrebbe tranquillamente ignorare le prescrizioni relative allo sconto dato da un’elevata resa cromatica (tanto che in calce alla tabella dovrebbe apparire l’avvertenza che lo sconto dovuto alla resa cromatica è legittimo solo se “in relazione a esigenze di visione periferica verificata nell’analisi dei rischi”).
A questo punto però è opportuna una precisazione dei termini utilizzati ed una spiegazione che motivi l’avvertenza in calce.
L’occhio umano funziona pressoché come una macchina fotografica, in cui la pellicola è sostituita dalla retina. Questa è formata da due diverse tipologie di cellule sensibili alla luce: i coni ed i bastoncelli. A grandi linee, i coni permettono la visione del colore, riescono a definire i particolari della scena osservata e sono concentrati nella parte centrale della retina, chiamata fovea; i bastoncelli forniscono una visione monocromatica, hanno una definizione dei particolari molto bassa, ma in compenso sono molto sensibili alla luce e sono disposti in grande quantità lungo tutta la retina.
Per questi motivi l’acuità visiva (capacità di distinguere i particolari di una scena osservata) risulta massima in corrispondenza della zona foveale (per un angolo visivo inferiore ai 5°) e decresce rapidamente: l’aumento di densità dei bastoncelli verso le zone periferiche non riesce a sopperire alla diminuzione dei coni in termini di acuità visiva; in fondo sappiamo tutti che tentare di leggere con la periferia della retina o in condizioni di luce scarsa, ovvero usando il sistema dei bastoncelli, non dà buoni risultati.
Risulta inoltre chiaro perchè la visione diurna (chiamata fotopica), mediata soprattutto dai coni, sia caratterizzata dalla visione a colori, mentre quella notturna (chiamata scotopica), mediata soprattutto dai bastoncelli, sia caratterizzata da una visione monocromatica.
In base a queste osservazioni il CIE ha definito due curve di ponderazione (con un valore di picco pari a 1), riportate nel disegno sottostante, che misurano l’efficienza visuale a varie lunghezze d’onda nel caso di luminosità diurna (curva bianca – visione fotopica) e notturna (curva nera – visione scotopica).

visione_umana_big

Dal grafico si può notare come la visione fotopica abbia un picco corrispondente alle lunghezze d’onda di una luce giallo-verde, mentre quella scotopica di una luce azzurra: lo spostamento del massimo di sensibilità, dovuto all’utilizzo prima di coni e poi di bastoncelli è denominato effetto Purkinije. I bastoncelli, che funzionano in condizioni di bassa visibilità, vedono meglio il blu di quello che fanno i coni, i quali possono vedere luce profondamente rossa, luce che per i bastoncelli appare nera. Lo possiamo sperimentare di persona prendendo due pezzi di carta colorata rossa e blu: in condizioni di buona luminosità, risulta più luminoso il pezzo rosso, passando all’oscurità l’effetto si inverte.
A livello internazionale, è stata scelta la curva fotopica per “mediare” i valori del flusso luminoso uscente dalle singole sorgenti. La potenza espressa dal flusso luminoso viene “pesata” in base alla sensibilità dell’occhio umano alla luce diurna secondo la seguente formula:

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in cui il primo termine esprime il flusso vero e proprio definito come energia luminosa emessa da una sorgente per unità di tempo ed il secondo è la curva fotopica V(λ) espressa sopra.
Questo però porta a due problemi: il primo è dovuto al fatto che l’illuminazione stradale si colloca in un ambito che non è né fotopico né scotopico e che viene appunto chiamato mesopico (definito generalmente dall’intervallo di luminanza compreso fra 0,001 e 3 cd/mq); il secondo, strettamente legato al primo, è quello che in tale ambito la valenza della curva di ponderazione fotopica non è del tutto esatta.
Negli ultimi anni sono stati condotti diversi studi sull’illuminazione mesopica, fra cui vorrei citare “Mesopic lightning conditions and pedestrian visibility”, in INGINERIA ILUMINATULUI, 11-2003, “Mesopic visual efficiency IV: a model with relevance to nighttime driving and other applications”, in LIGHTNING RESOURCE TECNOLOGY, 03-2007 ed il lavoro svolto dal CIE nel documento denominato CIE TC1-58.
Grazie a questi studi è emerso che in ambito mesopico sia i coni che i bastoncelli concorrono alla definizione del compito visivo. In particolare la sensibilità spettrale dell’occhio non cambia quando i livelli di illuminazione raggiungono l’area mesoscopica per angoli visuali ristretti e quindi la curva fotopica V(λ) rimane una misura valida per la visione foveale a basse luminanze (almeno fino a livelli di 0,01 cd/mq, altamente al di sotto della più bassa luminanza prevista dalle norme per l’illuminazione stradale). Invece, in situazioni in cui le informazioni vengono catturate anche da una visione periferica (angolo visivo di 15°-20°), i bastoncelli assumono un ruolo dominante: in questi casi una lampada con forte componente blu dello spettro luminoso apporterebbe miglioramenti alla visione periferica e quindi all’identificazione di oggetti fuori dal campo foveale, soprattutto col diminuire della luminosità.
I modelli di curve mesopiche proposti da questi studi indicano un aumento relativo della luminosità percepita (fino al 30% in più) con sorgenti a forte componente blu dello spettro luminoso nei casi sopra riportati.
Fatta questa (lunga) premessa, si può dunque comprendere perché la tabella richiama al fatto che la riduzione di classe deve essere motivata con esigenze di visione periferica.
Quello che però rimane oscuro è il ricorso all’indice di resa cromatica: il miglioramento delle prestazioni visive in ambito mesopico ed esigenze di visione periferica si ottiene unicamente per quelle lampade che hanno un elevato rapporto “capacità scotopica”/”capacità fotopica” e quindi per spettri che concentrano i loro valori sul picco della curva scotopica.
Come ben sa chi si occupa di progettazione illuminotecnica, l’indice di resa cromatica è fra gli indici meno significativi di una sorgente luminosa, in quanto basato sulla restituzione fedele di pochi colori su tutta la gamma dello spettro visibile. Per assurdo una sorgente luminosa potrebbe avere un indice di resa cromatica superiore a 60 senza aver emissioni rilevanti sulla fascia blu dello spettro luminoso e quindi non apportare alcun miglioramento alla visione mesopica.
Allo stesso modo desta molte perplessità il fatto che un indice di resa cromatica inferiore a 30 comporterebbe un aumento della classe: non vi sono “indici al ribasso” nelle pubblicazioni sopra citate e per la sicurezza stradale mi pare più importante vedere un ostacolo e vederlo bene, non riuscire a distinguerne il colore; non contiamo poi il fatto che tutte le sorgenti “tradizionali” al sodio verrebbero per questo penalizzate e quindi la norma sovvertirebbe completamente ciò che è stato finora il normale calcolo illuminotecnico.
Inoltre, come indica la stessa tabella, qualora si presentassero ostacoli al di fuori dell’area stradale (tali da giustificare la necessità di una visione periferica), occorrerebbe aumentare la categoria illuminotecnica (arrivando comunque a un pareggio allora) visto che molto probabilmente si tratterebbe di “intersezioni e/o svincoli a raso” oppure “passaggi pedonali”.
Per contro, la maggioranza delle strade italiane consta di strade locali con carreggiata di circa 6m e, a volte, marciapiedi a lato; in questi casi la visione foveale o parafoveale (mediata quindi dai coni e pertanto legata a una ponderazione fotopica che, sempre secondo gli studi condotti sopra, non viene “migliorata” da sorgenti a luce bianca) copre in maniera adeguata il campo visivo stradale.
Mi sono sentito in dovere di fare queste precisazioni poiché molto spesso la tabella incriminata viene riportata tale e quale da numerosi professionisti, indipendentemente dalle condizioni al contorno. Lo stesso dicasi per molti produttori, che motivano il risparmio energetico dei propri apparecchi citando lo sconto apportato da tale tabella, senza considerare gli specifici ambiti di applicazione. Questa tabella, nata giustamente come esempio di applicazione dei parametri di influenza, sta diventando la croce e delizia di chi cerca di speculare sulle prestazioni dei proprio prodotti.
Invito pertanto chiunque a prestare attenzione a tale genere di proclami, ricordando che i progetti illuminotecnici possono essere firmati solo da professionisti abilitati e non da produttori e certificatori.

Fonti luminose con spettro prevalentemente blu

L’utilizzo di fonti luminose con spettro tendente al blu (come i LED o gli ioduri metallici indicati nell’articolo) secondo diversi studi (fra cui “Action spectrum for melatonin regulation in humans: evidence for a novel circadian photoreceptor” in J. Neurosci 21(16) del 2001e “An action spectrum for melatonin suppression: evidence for a novel non-rod, non-cone photoreceptor system in humans” in J.Physiol, 535 del 2001) potrebbe provocare alterazioni nella produzione di melatonina (con conseguente alterazione del ritmo circadiano) non solo nell’uomo, ma nell’intera fauna sottoposta a questa illuminazione.
Senza creare facili allarmismi, non sarebbe più saggio valutare con cautela l’applicazione estensiva di queste sorgenti luminose, anziché pentirci quando sarà troppo tardi?
Non solo: con l’invecchiare dell’occhio, si ha un progressivo ingiallimento del cristallino e della cornea ed un intorpidirsi dell’umor vitreo e per questi motivi la luce che maggiormente viene diffusa all’interno dell’occhio è quella di lunghezza d’onda minore (blu). Perciò, per la popolazione anziana, la luce più efficace per produrre abbagliamento è proprio quella con una forte componente blu, che andrebbe quindi evitata nelle installazioni stradali.
Volevo inoltre far notare che esistono ad esempio sorgenti LED a “luce calda” che potrebbero evitare questi effetti collaterali (impiegando temperature di colori di circa 3500 °K) e migliorare la qualità della luce urbana: non credo che illuminare le città con luci da “vetrina da negozio” o peggio da “banco frigo” possa migliorare la condizione odierna.
E’ vero che l’uomo ha vissuto da sempre sotto la luce del sole, ma è altrettanto vero che si suppone che durante la notte stia al buio (o alla penombra almeno) e dorma: non credo che nessuno di noi voglia vivere 24 ore su 24 sotto la luce solare. L’illuminazione notturna deve essere un “aiuto discreto” alla qualità e sicurezza urbana e non deve incidere pesantemente sull’ambiente circostante: per questo motivo le leggi regionali contro l’inquinamento non saranno certo perfette, ma almeno cercano di contrastare gli effetti indesiderati dell’illuminazione notturna.
Auspicherei pertanto che le linee guida di prossima pubblicazione possano fornire indicazioni precise a riguardo e non fossero uno “sconto tecnico” per i produttori di apparecchi di illuminazione.

Risparmio energetico

La questione del risparmio energetico appare di estrema urgenza, ma questo non significa dover forzare a tutti i costi la normativa.
L’illuminazione è una materia complessa, che necessita non solo di una buona tecnica ma anche di competenza sul campo: diminuire di una categoria può significare poco o nulla sulla carta, ma nella realtà si traduce in una percezione ben diversa della luce.
Anziché quindi applicare sconti di categoria basandosi su glosse non del tutto chiare, vorrei ricordare, a titolo informativo, che ad oggi è possibile ottimizzare un impianto di illuminazione pubblica, al fine di favorire il risparmio energetico attraverso:
a) riduzione del flusso luminoso attuata in cabina o punto-punto in relazione alle diverse categorie illuminotecniche di esercizio: in questo modo si può ottenere fino al 40% di risparmio energetico
b) sostituzione dei vecchi apparecchi illuminanti con nuovi che permettano di mantenere lo stesso illuminamento, ma con maggiori interdistanze e minori potenze di utilizzo
c) integrazione degli apparecchi illuminanti con sistemi alternativi di produzione di energia, come fotovoltaico ed eolico
d) possibilità di accensione degli apparecchi “on demand”

Inoltre vorrei ricordare che non esistono solo LED e ioduri metallici, ma anche lampade al sodio che presentano elevati indici di resa cromatica: teoricamente sarebbe quindi possibile ottenere gli stessi sconti mantenendo le soluzioni già presenti e non si avrebbero gli “effetti indesiderati” dovuti agli apparecchi citati nell’articolo di Soardo.
Purtroppo mi rendo conto che in Italia la materia è spesso ignorata o sottovalutata e pertanto ci si avvicina a questi temi senza la dovuta preparazione; inoltre ci si auspicherebbe che le norme venissero corroborate da indicazioni precise e coerenti con le ultime ricerche, non da tabelle che creano unicamente confusione (soprattutto in chi non è così padrone della materia).
Le Leggi Regionali non saranno certo infallibili, ma a quanto pare fino ad ora sono state le uniche a porre il problema dell’inquinamento luminoso e della riduzione dei consumi in maniera cogente; a tal riguardo da tempo noi progettisti stiamo aspettando una normativa unificata per tutto il territorio nazionale.[2]

3) La risposta

La risposta dell’ing. Soardo non si è fatta attendere e già a pag. 12 del numero del 15 settembre 2009 del “Giornale dell’Ingegnere” si può leggere che: “la norma UNI 11248 non penalizza le lampade al sodio alta pressione”. Ma come? Se avete inserito una tabella in cui viene detto che lampade con basso indice di resa cromatica (come le lampade al sodio comuni) devono essere penalizzate di una categoria?
Inoltre “la luce bianca con elevato indice di resa dei colori viene avvantaggiata in base alle esperienze scientifiche pubblicate in sede internazionale”[2]. Bene: quali sono queste “esperienze scientifiche”? Sono le stesse che ho citato io? E poi allora si tratta -come ho ricordato nella mia lettera- di luce bianca associata a un elevato indice di resa colori e non solo di elevata resa cromatica!!
A quanto pare l’ing. Soardo è avido di citazioni, così come lo è quando afferma che “come confermato dal direttore di una clinica universitaria, la componente blu ha un effetto “acuto”: sveglia sulla strada, evitando colpi di sonno e incidenti, che cessa quando si rientra a casa”[2]. Chi è questo direttore? Cosa cessa quando si rientra a casa? La strada, forse (visto che è l’unico soggetto alla terza persona singolare)?
E poi, non è vero che non “esistono prove di sorta su effetti “sistemici” su altri organi” [Ndr. gli occhi], visto che nel mio scritto ho citato due studi che riguardano appunto questi effetti. Inoltre, come afferma l’ing. Soardo, la componente blu ha un effetto “acuto” che “sveglia”; se è vero che l’utente della strada risente di questo effetto solo quando è effettivamente in strada, dobbiamo però pensare a tutti coloro che risentono di questa luce indirettamente (quanti apparecchi luminosi riflettono la propria luce all’interno delle case?). Per non parlare poi degli animali che vivono a contatto con queste tecnologie: posso capire che una norma UNI non possa prendere in considerazione tutti questi aspetti, ma alle soglie del 2010 mi aspetterei una maggior sensibilità ambientale da parte di chi studia e progetta le normative (o forse, come al solito, ricadiamo nel “chi se ne frega degli animali?”).
Se non esistono ancora studi approfonditi a riguardo, non significa che gli effetti negativi non ci sono (o forse l’amianto ha cominciato ad essere tossico solo dopo che gli studi ne hanno confermato la pericolosità?).

Sul fronte “risparmio energetico” veniamo invece a sapere che le leggi regionali  “portano il peso di aumenti di costi e di consumi di oltre il 20% a carico dei cittadini, come dichiarano anche astronomi in sede internazionale”[2]. Ancora una volta, non sappiamo chi siano questi “astronomi” e quando abbiano affermato tutto ciò, nè di come siano stati calcolati gli aumenti di costo; gradirei però una risposta da parte di chi ha compilato queste benedette leggi regionali e di come si sia permesso di farci pagare il 20% in più.
Nulla viene detto sugli altri sistemi per la riduzione dei consumi (di cui invece, se volete, posso fornire dati a riguardo).

4) Conclusioni (provvisorie)

Sull’onda di queste risposte al fulmicotone vorrei quindi concludere citando il direttore di una nota macelleria, il quale invece afferma che a lui la luce gialla del sodio piace molto, soprattutto nei centri storici antichi; inoltre, in sede internazionale, sembra che la luce gialla del sodio non interferisca con la produzione di uova delle galline che risiedono in prossimità di tali fonti di illuminazione.

Ovviamente sto facendo della facile ironia.

Purtroppo non c’è invece da ridere sulle bufale che vengono raccontate e quindi sull’ostinazione di numerosi professionisti e produttori a voler raccontare delle falsità sui prodotti stradali a LED. Perchè alla fin fine raggirare le pubbliche amministrazioni con false promesse significa incidere ancor di più sui costi sostenuti dal sistema pubblico e quindi sulle nostre tasche.

Sostituire semplicemente una sorgente di illuminazione con un’altra non significa immediatamente fare risparmio o migliorare l’illuminazione.

Installare apparecchi a LED non significa immediatamente fare risparmio o migliorare l’illuminazione.

Ogni problema illuminotecnico va valutato con cura e rappresenta un caso a sè stante: consumi e costi non possono quindi essere generalizzati. E comunque ogni progetto dovrebbe essere presentato con una valutazione costi/benefici; non bastano quattro calcoli (quando ci sono) e belle parole per fare veramente del risparmio.

S.V.B.E.E.Q.V.

Matteo Seraceni

[1] Il Giornale dell’ingegnere, n.11-15 giugno 2009
[2] Il Giornale dell’ingegnere, n.15 settembre 2009

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