Apparecchio a LED

Illuminazione stradale a LED – 3^ parte

Illuminazione stradale LED___________________________________________________________________________________________________________________________ A

ncora una volta torno a parlare dei LED. Magari direte che sono fissato.
Eppure ho sentito il bisogno di scrivere ancora perché ci sono tante novità riguardanti questa tecnologia e la sua applicazione sulle strade.
Ormai molti impianti di prova che hanno superato i 3 o 4 anni ed è quindi possibile valutare le aspettative di vita confrontandole con le varie problematiche emerse, come rotture ed inefficienze; inoltre, a partire da quest’anno, incominciano ad affacciarsi sul mercato prodotti che dimostrano un buono sviluppo tecnico ed elettronico e che danno ampio spazio a margini di miglioramento nella parte fotometrica.
Un’altra notizia è quella che – chissà come mai – delle migliaia di ditte che si sono affacciate sul mercato per presentare questi prodotti ne sono sopravissute poche e le poche rimaste sono costituite al 95% da chi l’illuminazione già la faceva da tempo.
Il tutto a dimostrare la tesi ormai consolidata che questa tecnologia è stata presentata sul mercato con almeno 3 anni di anticipo sulle sue reali possibilità e questo anticipo sta rischiando di bruciare l’espansione di questa tecnologia sul nascere.

1) Il consorzio Zhaga per la standardizzazione dei LED

Per molti di voi la standardizzazione degli apparecchi LED sembrerà l’ultimo dei problemi, ma quante volte avete lanciato contro la parete l’ennesimo carica-cellulare con una presa diversa dalla versione precedente dello stesso telefonino? Oppure avete inveito contro i produttori di pneumatici, quando siete venuti a sapere che la vostra versione di battistrada è quella più rara e per questo dovete pagare un treno di gomme 400 euro in più di tutti gli altri?
Ecco, moltiplicate il tutto per le centinaia di euro che servono per la manutenzione degli impianti di illuminazione e potete avere un’idea di quello che è il costo attuale della varietà pressoché infinita di apparecchi a LED sul mercato, pochissimi dei quali sono intercambiabili o comunque hanno parti comuni con altri.
Perchè possiamo incrociare le dita e sperare che tutto vada bene, ma nel malaugurato caso in cui ci sia la necessità di cambiare un apparecchio LED dopo qualche anno dall’acquisto saremmo proprio nei guai: nel migliore dei casi la ditta non produrrà più l’apparecchio con caratteristiche simili a quelli già installati (basti pensare ad esempio che una delle marche più note, la RUUD, è già alla terza generazione in meno di quattro anni, con la prima generazione già fuori commercio e completamente rivisitata); nel peggiore dei casi la ditta sarà scomparsa dal mercato (vedi la nota in apertura) e occorrerà mettere “una pezza” di qualche tipo per non dovere cambiare per intero tutto l’impianto.
E anchese se non dovessimo cambiare per intero l’apparecchio le difficoltà sono sempre tante: ad esempio non esiste una tipologia unica di alimentatore per moduli LED e quindi se questo si rompe (e si rompe, fidatevi) occorre rivolgersi alla ditta produttrice del corpo illuminante per avere il pezzo di ricambio, senza la possibilità di sostituirlo con prodotti similari; per non parlare dell’impossibilità di organizzare una scorta di magazzino, poiché ogni ditta utilizza un alimentatore diverso dall’altro e quindi, a meno che non si voglia illuminare un intero Comune tramite “monomarca”, occorrerebbe avere in scorta almeno un paio di alimentatori diversi per ogni tipologia di apparecchio installato.
Come potete ben immaginare, questo significa porre un macigno alle eventuali economie di mercato e legare in maniera vincolante gli acquirenti ai produttori (vi siete mai chiesti perché non esiste ancora una presa “universale” per telefonini?).

Per porre un freno a questa “moltiplicazione infinita” e avvicinare la tecnologia LED a quella che è la standardizzazione già presente sul mercato è stato creato il consorzio Zhaga, di cui fanno parte anche Acuity Brands Lighting, Cooper Lighting, OSRAM, Panasonic, Philips, Schréder, Toshiba, TRILUX, Zumtobel Group e che si occupa di fornire una standardizzazione per le interfacce dei cosiddetti “LED light engines”: in pratica il consorzio vuole mettere a punto una base comune definita da 5 interfacce (supporto, alimentazione, controllo, fotometria e dissipazione) standardizzate su cui poi potranno inserirsi i vari “motori” LED.

Le 5 interfacce proposte da Zhaga

Per lavoro verifico circa una decina di apparecchi a LED al mese e non sapete la fatica nel catalogare e confrontare le varie soluzioni: perché alcuni sono alimentati a 350mA, altri a 525mA, altri ad altre correnti e quindi hanno emissioni, temperature di funzionamento e curve di decadimento completamente diverse fra loro. Per non parlare della temperatura di colore, della capacità di dissipazione o delle perdite dovute poi all’alimentatore. Non esiste in pratica la possibilità di confrontare direttamente i prodotti fra di loro e l’unica soluzione è effettuare almeno un paio di calcoli illuminotencnici su strade tipo per vedere se l’apparecchio è buono oppure no (ma anche in questo caso la scelta è quanto mai variegata, perché non avendo la possibilità di regolazioni con slitta come gli apparecchi a scarica, ogni apparecchio LED va bene unicamente in determinate soluzioni ed è completamente inutile in altre, senza possibilità di avere l’elasticità necessaria a coprire le varie esigenze).

Il lavoro svolto dal consorzio Zhaga fa quindi ben sperare, non solo perché è partecipato da tutte le più grandi aziende del settore (e quindi ha un certo peso nelle decisioni riguardanti lo sviluppo dei prodotti di illuminazione), ma anche perchè – finalmente – non si avranno più prodotti a 3650K o 4215K, ma con temperature di colore standard, oppure moduli che emettono 5213lm e via discorrendo, ma emissioni scalate e univoche, e così via. Questo renderebbe sicuramente più facile la scelta del prodotto, ottimizzerebbe i costi di manutenzione e sostituzione e diminuirebbe notevolmente i costi di produzione e commercializzazione.

2) Manutenzione, luce bianca e tante bufale

Come si suol dire, prima o poi tutti i nodi vengono al pettine.
Quante volte ho richiamato l’attenzione sul mancato utilizzo dei corretti coefficienti di manutenzione nei calcoli illuminotecnici con apparecchi a LED oppure sull’uso errato e pericoloso della cosiddetta “declassificazione” dovuta alla luce bianca? Tanto più che, mentre per la manutenzione in effetti non esiste una legge che la regolamenti, per la luce bianca in Italia abbiamo l’unica norma al mondo che consente uno sconto oltre il 25% nella luminanza a terra per strade con traffico motorizzato (tutte le altre normative, quando lo consentono, prevedono uno sconto unicamente per strade pedonali o a traffico misto).
Mi chiedo inoltre perché nella norma non si parli semplicemente di tecnologie con Ra>60 o Ra<60 (discriminazione fra “luce bianca” e non) oppure di tecnologie con Ra<20 (assenza totale di discriminazione cromatica), ma tecnologie con Ra>60 e tecnologie con Ra<30 (perchè se fosse stato solo Ra<20 ovviamente non sarebbero state ricomprese le sorgenti a sodio alta pressione).

– Il corretto coefficiente di manutenzione

La norma di riferimento a questo proposito rimane la CIE 154:2003 – “The maintenance of outdoor lighting systems”; mentre fino a poco tempo fa esistevano pochissime indicazioni riguardo la corretta applicazione di tale norma (tranne ovviamente il mio sito 🙂 ), oggi cominciano a comparire anche su internet le corrette metodologie di calcolo.
Fra questi vorrei citare la brochure di SITECO e il libretto sull’efficienza dell’illuminazione pubblica pubblicata dall’agenzia per l’energia portoghese.
In realtà non può esserci una vera e propria normativa riguardante il coefficiente di manutenzione, poiché nessuno può imporre una tempistica riguardante i cambi lampada o la sostituzione dei dispositivi: la decisione su durata e manutenzione deve essere fatta in base alle economie possibili e di comune accordo con il gestore/manutentore dell’impianto e quindi nessuno vieta di cambiare ad esempio le lampade ogni anno, con coefficienti più alti, ma questo comporta anche costi molto alti.
D’altra parte il piano di manutenzione è sempre obbligatorio (si veda il DPR 554/99, art 40) e pertanto non è neppure corretta la presentazione di coefficienti di manutenzione “calati dall’alto”, così come si vede nel 90% dei progetti illuminotecnici, senza una coerenza fra soluzioni manutentive e coefficienti utilizzati.
Solo una volta definito il piano manutentivo, è possibile capire quali coefficienti adoperare.

Il calcolo del coefficiente deve essere basato sulle caratteristiche dell’apparecchio, sulle condizioni del sito di installazione e sul piano di manutenzione programmato, secondo la seguente formula:

Il fattore di deprezzamento del flusso luminoso (LLMF) indica la riduzione del flusso della sorgente luminosa nel tempo.
Mentre per le lampade tradizionali è possibile fare riferimento ai cataloghi (o alla stessa CIE 154:2003 che presenta valori cautelativi), per le sorgenti a LED occorre fare riferimento alle curve fornite dai produttori, diverse a seconda della temperatura di giunzione considerata e della corrente di pilotaggio (ben consci però che il comportamento nella reale applicazione risulta in genere molto diverso da quello studiato in laboratorio, con alimentazione, sollecitazioni e temperature controllate).

Curva di decadimento di una lampada SAP

Curva di decadimento LED Lumileds rebel a 350mA e Ta=25°C

LLMF come riportato nel documento portoghese

Quindi, mentre per una lampada a scarica è possibile prevedere in maniera abbastanza accurata il decadimento, per una sorgente a LED occorrerebbe conoscere il lotto utilizzato (non so se ne siete a conoscenza, ma non tutti i lotti della stessa tipologia di LED sono uguali e cambiano molto a seconda dei controlli e del costo), la corrente di pilotaggio, la temperatura di giunzione media di funzionamento per ogni diodo presente all’interno dell’apparecchio (visto e considerato che molti produttori alimentano alcuni diodi con correnti differenti all’interno dello stesso apparecchio), il tutto sapendo che questi dati possono variare in maniera sensibile, visto e considerato che non stiamo parlando di misure di laboratorio, ma di applicazioni sul campo. Quindi non mi sembra stupida l’indicazione fornita dal documento portoghese di definire sempre e comunque un decadimento L70 a 65000 ore.
E a questo punto si capisce come le cosiddette “50000” ore significano poco o nulla: un apparecchio LED potrebbe essere usato  anche per 150000 ore, ben sapendo che in questo caso il coefficiente di manutenzione utilizzato risulterebbe infimo.

Il fattore di sopravvivenza della sorgente (LSF) indica la progressiva mortalità di una sorgente dopo un certo numero di ore di funzionamento.

Fattore di sopravvivenza sorgente

In questo caso il documento portoghese indica una percentuale di rottura del 5% oltre le 12000 ore di funzionamento; altri, come la SITECO, indicano una percentuale di rottura del 2% a 50000 ore; altri ancora prevedono che i LED siano indistruttibili.
In ogni modo la differenza principale fra un impianto a scarica ed uno a LED risiede nel fatto che un apparecchio a scarica monta in genere una sola sorgente, mentre all’interno di un apparecchio a LED possono convivere fino a 100 diodi: questo significa che quando una lampada a scarica si rompe, questa va sostituita immediatamente, per mantenere le condizioni di giusta uniformità ed illuminamento della strada, mentre la rottura di un diodo LED all’interno dell’apparecchio può non comportare la sua sostituzione immediata (anche perché altrimenti i costi sarebbero altissimi).
Nei calcoli per un apparecchio a LED va quindi adottato un fattore LSF=1,00 se si prevede di sostituire l’apparecchio  (o il modulo se possibile) alla rottura del primo diodo all’interno (pari quindi al fattore per una lampada a scarica), va adottato invece un fattore di almeno LSF=0,98 (per 50000 ore di funzionamento) se invece si lascia l’apparecchio invariato (ben consci però del fatto che non sempre la fotometria rimane inalterata allo spegnimento di un diodo).

Infine il fattore di deprezzamento dell’apparecchio (LMF) è dovuto in genere allo sporco che si accumula sul vetro di protezione (o alle lenti applicate ai diodi) e quindi è in funzione del grado di protezione IP dell’apparecchio, dell’intervallo di pulizia previsto dal piano di manutenzione e dall’inquinamento nell’area di installazione:

Fattore di deprezzamento dell'apparecchio secondo documento SITECO

Fattore di deprezzamento dell'apparecchio come appare nel documento portoghese

Definizione di inquinamento basso e alto

Attenzione: tutti questi documenti ci dicono una cosa importante (e che già avevo sottolineato in passato).
E’ ASSOLUTAMENTE FALSO CHE UN APPARECCHIO LED NON RICHIEDE MANUTENZIONE!
Tutti gli apparecchi LED infatti (così come gli apparecchi a scarica) richiedono un ciclo di pulizia eseguito almeno una volta ogni quattro anni in ambiente pulito se non si vogliono fare calcoli illuminotecnici con coefficienti di manutenzione estremamente bassi. E questa non è una cosa che mi sono inventato di sana pianta: basta fare un giro per la Bologna-Firenze ed accorgersi come non soffermarsi sugli aspetti manutentivi possa trasformare un buon impianto in galleria in una illuminazione “cimiteriale”.
Inoltre, come si può notare dal documento portoghese, utilizzare materie plastiche (come le lenti secondarie utilizzate da numerosi produttori) comporta un peggioramentodel 6% – 7% rispetto all’utilizzo della copertura in vetro; inoltre il cosiddetto vetro “autopulente” funziona solamente se leggermente convesso (altrimenti lo sporco non “scivola”): dimenticatevi quindi migliorie per vetri piani così come richiesti da alcune leggi regionali (ed in ogni modo è possibile prevedere un miglioramento di non più del 5% rispetto ai dati presentati sopra).

A questo punto siamo in grado di calcolare il fattore di manutenzione da utilizzare nei calcoli illuminotecnici (e conseguentemente anche il costo di manutenzione) per apparecchi a scarica e apparecchi a LED: il fattore di manutenzione da utilizzare è pari al punto più basso del grafico manutentivo ricavato secondo le tabelle viste sopra.

Grafico della manutenzione per un apparecchio sap

Tipo di manutenzione: cambio programmato lampada ogni 14000 ore (circa 3,5 anni) con contestuale pulizia del vetro
Costo intervento: 50 euro (prezzo lordo man. str. 2 operai con cestello, op. el. E.R.)
Costo annuale manutenzione: 14 euro circa
Coefficiente di manutenzione: 0,79

Grafico della manutenzione per un apparecchio LED

Tipo di manutenzione: cambio apparecchio a 50.000 ore (circa 12 anni) con fattore di decadimento L85 e pulizia del vetro ogni 16000 ore (circa 4 anni)
Costo intervento: 35 euro (prezzo lordo man. str. 2 operai con cestello, op. el. E.R.)
Costo annuale manutenzione: 9 euro circa
Coefficiente di manutenzione: 0,75

– Luce bianca e declassficazione

In base ai calcoli sopra (ma anche alle numerose evidenze sperimentali pubblicate ormai ovunque, si veda ad esempio: lo studio NLPIP sulle strade principali e locali o alle tesi pubblicate dall’Università di Padova sulle prestazioni dei LED e sui sistemi di illuminazione LED) si capisce come con prestazioni pressoché identiche (nel migliore dei casi) agli apparecchi a sodio e solo 5 euro di risparmio sulla manutenzione a fronte di circa 500 euro in più come acquisto iniziale, risultasse pressoché impossibile giustificare qualsiasi ipotesi di risparmio.
Ecco allora spuntare dal cilindro magico l’ipotesi “mistica” della declassificazione; mistica perché è più che altro questione di fede pensare che con una “luce bianca” sia possibile ridurre dal 25%  al 50% il flusso luminoso dell’apparecchio mantenendo al contempo gli stessi livelli di illuminazione. Tanto più che – correttamente – la norma UNI 11248 “indica” e non “prescrive” la declassificazione per le sorgenti a luce bianca (si veda a riguardo l’articolo sui led precedente), lasciando quindi al progettista illuminotecnico la piena responsabilità di tale decisione (secondo gli art. 1176 e 2236 del Codice Civile). Questo significa che un progettista illuminotecnico  deve applicare questa declassificazione con assennatezza e secondo criteri scientifici (e non  fideistici): un impianto con meno luce del dovuto potrebbe non essere considerato a norma se non supportato da evidenze sperimentali che confermano la corretta progettazione.

E poiché noi siamo uomini di scienza e non di fede, facciamo sempre riferimento a studi scientifici consolidati e condivisi.
In questo caso il riferimento è dato dalla norma CIE191:2010 – “Recommended system for mesopic photometry”, che incorpora al suo interno gli studi ed approfondimenti nati in seno al progetto “MOVE”, di cui ho già parlato in un altro articolo.
Lo studio definisce una nuova curva di ponderazione in ambito mesopico, in sostituzione a quella attuale fotopica, per valutare il flusso luminoso di una sorgente; questa nuova curva è fatta in maniera tale da raccordarsi alla curva scotopica (CIE 1951) per valori bassi di luminanza e a quella fotopica (CIE 1931) per valori alti di luminanza.

Le curve di ponderazione mesopiche

Per semplicità, riporto solamente i valori più comuni di luminanza in rapporto alle tipologie di sorgenti più diffuse (a sodio alta pressione e a “luce bianca” a diverse temperature di colore).

Correlazioni fotopica/mesopica per sorgente SAP

Sorgente Sodio Alta Pressione:
0,75 cd/mq -> 0,83 cd/mq (+10%)
1,00 cd/mq -> 1,06 cd/mq (+6%)
1,50 cd/mq -> 1,55 cd/mq (+2%)

Correlazioni fotopica/mesopica per sorgenti a luce bianca 3500K

Sorgente Luce Bianca 3500K:
0,75 cd/mq -> 0,73 cd/mq (-3%)
1,00 cd/mq -> 0,97 cd/mq (-3%)
1,50 cd/mq -> 1,47 cd/mq (-2%)

Correlazioni fotopica/mesopica luce bianca 4000K

Sorgente Luce Bianca 4000K:
0,75 cd/mq -> 0,70 cd/mq (-7%)
1,00 cd/mq -> 0,95 cd/mq (-5%)
1,50 cd/mq -> 1,45 cd/mq (-3%)

Correlazioni fotopica/mesopica luce bianca 5000K

Sorgente Luce Bianca 5000K:
0,75 cd/mq -> 0,66 cd/mq (-12%)
1,00 cd/mq -> 0,93 cd/mq (-7%)
1,50 cd/mq -> 1,43 cd/mq (-5%)

Come si può vedere, rimane ben poco della riduzione permessa dalla normativa, soprattutto per valori uguali o superiori a 1,00 cd/m (vorrei quindi capire come verranno giustificati i progetti di alcune strade che da ME2 sono passate a ME3 con una riduzione del 50% del flusso): spero che nella revisione imminente della UNI 11248 si tenga conto di queste evidenze sperimentali perchè E’ ASSOLUTAMENTE ERRATO UTILIZZARE LA DECLASSIFICAZIONE SEMPRE E COMUNQUE.

3) Un passo avanti e un passo indietro

A margine delle considerazioni fatte sopra, esistono altri problemi legati all’applicazione estensiva di apparecchi a LED. Sembra infatti che, per un problema risolto (o comunque per alcuni dati che finalmente incominciano ad essere pubblicati), ne spuntino in continuazione altri.

– La scelta della classe di isolamento

Da qualche mese diversi produttori di apparecchi LED dichiarano che non è possibile garantire il corretto funzionamento degli alimentatori nei casi in cui l’apparecchio sia in Classe II: un alimentatore elettronico è infatti una parte molto fragile del sistema ed esposta alle sovratensioni.
Questo di per se è già un dato significativo, e conferma che un apparecchio LED potrebbe richiedere comunque interventi di manutenzione straordinaria prima della fine vita dichiarata (tra l’altro, vi siete mai chiesti perché a fronte di 15 anni di funzionamento, la garanzia si ferma generalmente a soli 3 anni?). Inoltre, mentre negli apparecchi a scarica è facile accedere al vano alimentatore, in molti apparecchi a LED è impossibile intervenire all’interno dello stesso e quindi, in caso di guasto, occorre sostituire l’intera armatura.

I vantaggi della Classe II di isolamento sono molteplici, perché non occorre più verificare e ripristinare in continuazione il collegamento a terra del palo e quindi la sicurezza è maggiore. Tornare alla Classe I sarebbe sicuramente un passo indietro, senza poi contare i maggiori costi di manutenzione derivanti da questa scelta.
D’altronde questo problema è comune a tutti gli alimentatori elettronici (anche quelli per gli apparecchi a scarica) e pertanto sarebbe auspicabile che venissero adottati sistemi di protezione adatti a garantire il giusto isolamento, senza dover per questo tornare a progettare impianti in Classe I.

– Le dimensioni contano

Tutti i manuali in circolazione che parlano dei LED pongono l’accento sulle piccole dimensioni dei diodi e quindi sulla possibile riduzione degli ingombri.
Questa è un’ottima cosa, perché riducendo le dimensioni degli apparecchi non solo si riducono le spese per i materiali, ma anche quelle per l’imballaggio e il  trasporto, con conseguente abbattimento di CO2 (e soprattutto dei costi del carburante, che di questi tempi non fa mai male).
Già in passato diverse ditte del settore si sono impegnate alla riduzione degli ingombri con gli apparecchi a scarica (arrivando a lunghezze totali di circa 50 cm, di contro ai soliti 70 – 80 cm) diminuendo, tra l’altro, anche il carico sul sostegno.

Purtroppo, nonostante le buone premesse, ancora gli apparecchi a LED si aggirano su lunghezze di 80 – 100 cm ed hanno pesi notevoli. Ovviamente non è colpa dei produttori, ma del numero necessario di diodi per avere un sufficiente flusso luminoso totale e dal conseguente apparato di smaltimento del calore (a proposito: diffidate di tutti quegli apparecchi che non sembrano avere abbastanza “materiale” dissipativo, importantissimo per la garanzia di durata e mantenimento del flusso luminoso).
Progettare un apparecchio non significa semplicemente “mettere in fila” un paio di LED, ma rifinire il prodotto a 360°, occupandosi della fotometria e della parte elettrica, così come della dissipazione e del design. Un apparecchio a LED bellissimo ma che costringe ad aumentare le sezioni di un palo o la profondità di scavo dei plinti risulta inutile come un apparecchio mediocre, perché fa lievitare in maniera incontrollata ed inutile i costi di installazione.

4) Sapere fare i conti

Chiudo la discussione con un accenno a come dovrebbero essere eseguiti i conti economici in vista di una riqualificazione o nuova installazione di un impianto di illuminazione.
In questi casi occorre SEMPRE tenere in considerazione che:

  1. tutti gli apparecchi illuminanti di ultima generazione (siano essi a scarica o a LED) sono comunque migliori di quelli già installati e con qualche anno alle spalle: questo significa che necessariamente una riqualificazione con apparecchi prestazionali comporta sempre un miglioramento in termini di costo energetico e manutentivo (se questo non avviene o l’apparecchio scelto è scadente oppure l’impianto presenta talmente tante complicazioni/vincoli da non consentire margini di risparmio);
  2. in base al punto 1, risultano perfettamente inutili tutti quei documenti che dimostrano come la sostituzione di un apparecchio esistente con uno nuovo (sia esso a scarica o a LED) porta a dei risparmi: quale pazzoide mi chiedo vorrebbe sostituire un apparecchio esistente con uno che consumi più energia o faccia meno luce? Per capire quale tecnologia porti il maggiore risparmio (o un minore tempo di ritorno) occorre fare confronti fra diversi apparecchi performanti di ultima generazione (siano essi a scarica o a LED) e di diversi produttori che forniscano le stesse prestazioni illuminotecniche;
  3. in questo caso, come riporta il documento del NLPIP, “a complete comparison should demonstrate the system’s   performance compared to alternative  technologies that meet all of the required performance criteria. Evaluations should be measured or simulated excluding ambient light and should include consideration of the full system costs” ovvero “una comparazione completa [fra apparecchi illuminanti] dovrebbe dimostrare le performace del sistema confrontandole con tecnologie alternative che soddisfino tutti i criteri prestazionali richiesti dall’analisi. Tali valutazioni dovrebbero essere misurate o simulate escludendo le luci dell’ambiente circostante e dovrebbero includere un’analisi dei costi dell’intero sistema“. Quindi ad esempio non ha alcun senso presentare comparazioni in cui venga messo sullo stesso livello un apparecchio LED che produce circa la metà dell’illuminamento a terra rispetto al corrispettivo apparecchio a sodio alta pressione;
  4. includere i costi dell’intero sistema significa innanzitutto prevedere quale piano di manutenzione si vuole adottare per un determinato apparecchio e poi, in base a questo, definire le prestazioni raggiungibili ed i costi energetici e di manutenzione: ha poco senso presentare un risultato illuminotecnico con coefficienti di manutenzione alterati (tipo MF=0,90) ed in base a questo affermare che un apparecchio LED risparmia ed in più non necessita di manutenzione. Servono dati concreti e – purtroppo per loro – non possono essere i produttori a fornirli perché non sono loro a gestire l’impianto e rispondere dell’eventuale inadeguatezza dello stesso nel tempo;
  5. infine occorre eseguire analisi di TCO (Total Cost of Ownership) che includano TUTTI i costi inerenti all’impianto presentato (come ad esempio i costi di posa dei sostegni e linee, di posa dell’apparecchio, di manutenzione e pulizia).

Tutto il resto sono chiacchiere da bar.

 

S.V.B.E.E.Q.V.

Matteo Seraceni

 

Leggi anche:

Illuminazione stradale a LED – 1^ parte

Illuminazione stradale a LED – 2^ parte

 

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Illuminazione pubblica a LED – 2^ parte

n3ell’articolo precedente sono state prese in considerazione soprattutto le sorgenti luminose a LED, ma chi si occupa di illuminotecnica sa che il confronto va fatto sulle caratteristiche dell’apparecchio di illuminazione: un apparecchio scadente rimane scadente anche con la migliore lampada al mondo installata.
Per ottimizzare sia in termini economici sia ambientali un sistema di illuminazione occorre adottare un sistema ottico in grado di massimizzare il flusso luminoso in relazione al compito visivo e ridurre l’impiego di potenza elettrica, oltre utilizzare tecnologie capaci di ottimizzare il ciclo di vita.
L’apparecchio deve essere tale da garantire le prestazioni da normativa col maggiore interasse possibile fra i punti luce, poiché i costi affrontati per realizzare le installazioni di pubblica illuminazione sono dovuti soprattutto agli scavi, ai plinti di fondazione, ai pozzetti e al palo e, in secondo luogo, poiché questo minimizza l’inquinamento luminoso prodotto.

Perchè possedere un’automobile non significa saperla guidare

1) Caratteristiche degli apparecchi di illuminazione

Un apparecchio di illuminazione può essere definito un sistema che distribuisce, filtra o trasforma la luce emessa da una o più sorgenti e che include, ad eccezione delle lampade stesse, tutte le parti necessarie per fissare e proteggere le lampade e, ove necessario, circuiti ausiliari, compresi i cavi e le connessioni per l’alimentazione elettrica.
Possiamo pertanto pensare ad esso come una macchina, che ha lo scopo di trasformare l’energia elettrica in energia luminosa e di distribuire la luce così generata col minimo di perdite e massima sicurezza e funzionalità per l’utente.
Come per qualsiasi macchina si possono valutare numerosi fattori, come rendimento ed affidabilità, che possono guidare nella scelta del migliore apparecchio per il compito considerato.
Il primo parametro su cui basare la caratterizzazione è sicuramente quello dell’emissione luminosa, che determina il modo in cui l’apparecchio distribuisce la luce: per far questo si ricorre generalmente a delle rappresentazioni grafiche che indicano l’emissione luminosa secondo le diverse direzioni nello spazio, rapportata ad un flusso luminoso costante, in modo da avere una rappresentazione indipendente dal tipo di lampade installate.
Strettamente legata al tipo di emissione luminosa è la caratterizzazione spaziale del flusso e pertanto gli apparecchi vengono classificati in simmetrici od asimmetrici secondo la forma della curva, cut-off o non cut-off secondo la modalità di emissione luminosa, ecc.
Vi sono poi caratteristiche legate all’affidabilità dell’apparecchio nel tempo, come il cosiddetto “grado di protezione”, che indica la capacità di resistere ai contatti accidentali, alla penetrazione di polvere o umidità e alla penetrazione di acqua e la “classe di isolamento”, che classifica il grado di protezione dal contatto accidentale diretto con le parti normalmente in tensione o tra queste e la carcassa esterna.

2) Calcolo dell’illuminamento a terra

Prima di procedere con l’analisi delle curve fotometriche, appare d’obbligo capire come le caratteristiche di una lampada ed un apparecchio si traducano nell’illuminazione vera e propria sul piano da illuminare.
Per fare questo prendiamo in considerazione il calcolo dell’illuminamento puntuale a terra per una sorgente puntiforme (in realtà, le ultime normative prendono giustamente in considerazione la luminanza, che tiene conto anche dell’osservatore e della superficie illuminata; non mi sembra però utile, per ragioni di spazio e comprensione, illustrare un metodo di calcolo eccessivamente complicato, che verrà comunque riassunto più avanti).
Senza voler dilungarmi troppo sulle definizioni (per cui consiglio di leggere qui), è possibile definire l’illuminamento prodotto da una sorgente come:
form1L’angolo steriradiante sotteso all’area presa in esame è pari a:
form3in cui l’area da considerare è quella secondo la proiezione alla superficie con normale il raggio d’influenza considerato:
form2Possiamo pertanto scrivere:
form5Ricordando che l’intensità luminosa di una sorgente viene definita come:
form6otteniamo:
form7Questa legge è definita legge dell’inverso del quadrato.
Nel caso in cui abbiamo una sorgente ad un’altezza fissa h che emette un flusso verso terra, possiamo definire:

form8e quindi:

Legge coseno - figura La formula fornisce importanti indicazioni su come la luce si affievolisce allontanandosi dalla direzione normale alla superficie su cui incide: ad esempio, per una sorgente con intensità di 100 cd in ogni direzione, situata ad 1m di altezza dalla superficie, possiamo vedere come a 0° illumini 100 lux, a 30° illumini 65 lux (calo 35%) e già a 60° illumini 13 lux (calo 87%).
Da queste prime considerazioni è possibile osservare come certe curve fotometriche sono più consone di altre per una buona distribuzione della luce, poiché risulta fondamentale aumentare in modo esponenziale l’intensità luminosa allontanandosi dalla verticale per riuscire a fornire una distribuzione uniforme.

3) Emissione luminosa e caratteristiche fotometriche

Il tipo di emissione luminosa e quindi le caratteristiche fotometriche rappresentano i fattori più importanti sui quali operare la scelta dell’apparecchio di illuminazione.
La curva fotometria rappresenta graficamente come una sorgente luminosa emette luce nello spazio, vale a dire in che direzione emette la luce e con quale intensità; questa può essere associata a qualsiasi oggetto che emette luce, sia esso una semplice lampadina, un apparecchio illuminante o uno schermo che riflette della luce.
Per costruire una curva fotometrica è necessario misurare l’intensità luminosa emessa lungo determinate direzioni: è come se girassimo attorno all’apparecchio e, a diverse angolazioni, misurassimo l’intensità della luce emessa. L’apparecchio che compie questo rilievo, detto fotogoniometro, esegue le rilevazioni ad intervalli den determinati attorno alla sorgente luminosa.
La distribuzione delle intensità luminose può essere espressa tramite una superficie tridimensionale che viene detta solido fotometrico; l’analisi di questo solido consente di prevedere l’impatto sull’ambiente circostante.

immagine12

3.1) Curve fotometriche in coordinate polari

Poichè risulta complicato rappresentare in maniera adeguata il solido fotometrico in tre dimensioni, vengono generalmente adottate più rappresentazioni a due dimensioni. Un modo per rappresentare in due dimensioni la forma del solido fotometrico è quello di sezionarlo secondo uno dei piani di riferimento: l’insieme delle curve così ottenute (generalmente due) determina la cosiddetta “curva fotometrica”, che rappresenta, sotto forma di diagramma polare, la distribuzione delle intensità luminose di un apparecchio.
I sistemi di riferimento in base ai quali vengono definiti i piani di sezione su cui si tracciano le curve fotometriche sono stabiliti in base a precise convenzioni. Il sistema più diffuso è quello denominato C-γ secondo il quale il solido fotometrico è rappresentato tramite un fascio di piani che hanno in comune un asse, corrispondente all’asse ottico principale uscente dall’apparecchio. I piani vengono individuati con la sigla C, seguita dal valore dell’angolo che esprime la rotazione del piano rispetto al piano di riferimento (ad esempio C0, C90, ecc.). I valori di intensità giacenti su ciascun piano vengono individuati facendo riferimento all’angolo che ciascuna direzione forma con lasse ottico di riferimento, e indicandolo con la lettera greca γ, seguita dal valore dell’angolo. Gli angoli partono dal valore 0, che corrisponde all’asse ottico, e proseguono in senso antiorario con valori crescenti fino a 180°, che coincide con la retta dell’asse ottico principale, ma in direzione contrapposta.

pianiCPer una trattazione più precisa occorrerebbe riferirsi a semipiani C (che comprendono quindi i semipiani da 0 a 360): per questo motivo normalmente su uno stesso grafico si riportano i valori di due semipiani contrapposti (es. C0-C180; C90-C270), rispettivamente alla sinistra e alla destra dell’asse ottico.
Poiché spesso un apparecchio può essere equipaggiato con lampade diverse, che hanno le medesime caratteristiche geometriche ma emettono una diversa quantità di flusso, si preferisce riportare sul grafico un valore relativo. Per questo motivo viene fornita una sola curva con i valori di intensità relativi a una lampada convenzionale di 1000 lumen. Questo parametro permette di svincolare le curve fotometriche dal tipo di lampada utilizzata con un apparecchio e dalla sua potenza: invece di valori in candele si forniscono dunque dati in candele su kilolumen (cd/klm).
Per ottenere la reale intensità in candele è sufficiente moltiplicare il valore espresso sul grafico per i kilolumen delle lampade utilizzate.

esempio - curva

Come esempio prendiamo la fotometria del nuovo apparecchio a LED della Philips Mini-Iridium LED.
Dalla figura si può notare come l’intensità massima si attesta attorno ai 70° in direzione perpendicolare all’apparecchio (piano C0-C180, di colore blu in figura), con circa 720 cd/klm e cala rapidamente per direzioni più verticali, fino a circa 160 cd/klm, in modo da mantenere una illuminazione il più uniforme possibile, come detto in precedenza.
Osservando invece il piano C90-C270, di colore rosso in figura, ci si accorge che la luce è direzionata verso il basso, senza spingersi in avanti o indietro. Se la curva rossa avesse avuto una punta verso “destra” allora il fascio sarebbe stato orientato maggiormente verso la strada.
Per leggere più agevolmente i valori e per verificare la conformità di un apparecchio a quanto previsto dalle leggi contro l’inquinamento luminoso, non è sufficiente una sommaria visione della curva fotometrica (che potrebbe fra l’altro essere facilmente manipolata o “tagliata” oltre i 90°), ma è indispensabile la tabella dei valori di luminanza relativi alla curva che si sta analizzando.

3.2) Tabelle delle intensità ed inclinazione degli apparecchi

Le tabelle delle intensità luminose solitamente riportano sulle righe i valori degli angoli di elevazione e sulle colonne i valori dei piani di lettura.
Come per le curve fotometriche, le tabelle delle intensità generalmente riportano i dati in cd/klm.
Grazie a queste tabelle è inoltre possibile verificare il rispetto delle norme regionali contro l’inquinamento luminoso (ad esempio, per le norme della Lombardia, controllando che a 90° ed oltre vi siano 0 cd/klm).
tab1Qualora poi si presenti l’eventualità di installare l’apparecchio in posizione inclinata rispetto all’orizzontale, grazie alle tabelle è possibile conoscere la nuova fotometria associata “scalando” i valori della tabella iniziale verso il basso dell’angolo considerato. Ad esempio, per una inclinazione di 5°, riferendosi sempre all’apparecchio sopra avremo:

tab2In questo caso si nota come l’apparecchio, inclinato di 5°, non sia più conforme alle norme contro l’inquinamento luminoso.
I produttori di corpi illuminanti sono in grado di fornire tabelle che permettono di risalire al valore misurato dell’intensità luminosa emessa ad ogni angolo γ (gamma). In particolare queste tabelle di dati fotometrici di apparecchi d’illuminazione vengono realizzate e certificate da opportuni laboratori specializzati di enti terzi. Ad esempio l’Istituto Marchio di Qualità Italiano (IMQ) ha istituito il marchio di qualità “Performance” che come si può vedere dalla tabella riportata può essere utile per verificare per valori di γ maggiori di 90° se l’apparecchio è conforme alla LR 17/00.
La certificazione delle curve fotometriche da parte di un ente abilitato è obbligatoria per qualsiasi produttore che voglia vendere in Italia.

3.3) Comprendere i files Eulumdat

Le informazioni relative ad un apparecchio di illuminazione (come ad esempio le fotometrie indicate sopra) possono venire riassunte in formato elettronico tramite una codifica chiamata eulumdat (file con estensione *.ldt).
Per aprire questi files occorre un programma dedicato; in questa sede utilizziamo QLumEdit, un programma freeware che consente di leggere gli eulumdat.
Riferendoci all’apparecchio visto sopra, aprendo il file eulumdat, possiamo vedere che nella pagina “Diagram” viene indicata la curva fotometrica

qlum1
In “Luminous intensity” viene invece indicata la forma tabellare

qlum2
Inoltre nelle altre pagine possiamo leggere alcune caratteristiche di cui verrà discusso più avanti.
A tutti coloro che devono visionare un apparecchio di illuminazione consiglio sempre di farsi consegnare preventivamente i files eulumdat , in quanto dalle caratteristiche indicate è possibile farsi un’idea ben precisa dell’apparecchio (oltre ovviamente ad essere indispensabili qualora si voglia fare una simulazione dell’illuminamento su strada con programmi di calcolo).

3.4) Calcolo dell’illuminamento

Per capire il risultato “a terra” di una curva fotometrica è possibile eseguire il calcolo dell’illuminamento come indicato in precedenza. Pur non essendo più fondamentale ai fini dell’illuminazione stradale secondo nuova UNI 11248, risulta un buon indicatore in quanto rispecchia abbastanza fedelmente la “forma” dell’illuminazione sulla strada che fornisce un apparecchio.

Prendendo in considerazione l’apparecchio visto in precedenza, possiamo osservare come la curva fotometrica e la descrizione che ne abbiamo dato rispecchi l’illuminamento a terra:

iridiumInfatti possiamo osservare come l’illuminamento si mantenga abbastanza uniforme per tutto il piano (i colori vanno dal rosso->molta luce al viola->poca luce); inoltre la forma simmetrica della curva si rispecchia in un illuminazione simmetrica del piano. Inoltre possiamo osservare che la simmetria nel piano C90-C270 e la direzione verticale rispecchia una illuminazione che si sviluppa verticalmente al di sotto del punto luce (indicato con un puntino rosso in figura).

Prendendo in considerazione la curva fotometrica di un tipico apparecchio di illuminazione, possiamo vedere come la forma “allargata” della curva cerchi di fornire la massima ampiezza di illuminazione ed uniformità soprattutto verso quello che è il centro della careggiata; la forma protesa in avanti lungo il piano C90-C270 si riflette nello spostamento “in avanti” dell’illuminazione sul piano considerato:

koffer

4) Cosa “deve fare” un apparecchio stradale

Gli apparecchi per illuminazione stradale devono soddisfare requisiti molto stringenti sia dal punto di vista fotometrico sia da quello costruttivo. Il flusso luminoso deve essere indirizzato con precisione nelle direzioni ottimali per la visibilità sulla strada e deve invece essere schermato nelle direzioni che possono procurare fastidio ai conducenti.
Le normative impongono valori di luminanza tali da garantire un buon discernimento degli ostacoli e al contempo una uniformità dell’illuminazione.
La luminanza è una grandezza vettoriale che esprime la densità con cui un’intensità luminosa viene emessa da una superficie e per questo motivo rappresenta in maniera adeguata la sensazione visiva prodotta da una sorgente luminosa sull’occhio umano (ad esempio una sorgente che emette una certa intensità da una superficie molto piccola produce sull’occhio una sensazione molto più forte di una sorgente analoga ma con una superficie molto più ampia).
Questa grandezza si distingue dall’illuminamento visto sopra perché non definisce la componente “reale” di luce che arriva a terra, ma piuttosto una componente “soggettiva” che appare all’osservatore in funzione dell’angolo dal quale sta osservando l’oggetto: in questo modo è possibile calcolare la densità di luce emessa da una superficie e che raggiunge l’osservatore con un certo angolo di visuale.
Inoltre per le applicazioni stradali è particolarmente calzante,in quanto riferita alla luminosità del manto stradale e come questa viene percepita dagli automobilisti.
Spesso viene valutata non tanto la luminanza in sé, quanto il rapporto fra questa e la luminanza degli oggetti vicini o dello sfondo. Anche nell’illuminazione stradale si tende ad ottenere una buona visibilità degli ostacoli aumentando il contrasto di luminanza fra il manto stradale e gli ostacoli stessi, cercando di rendere massima la luminanza del manto stradale nella direzione di vista prevalente di un osservatore (che si trova compresa in un angolo molto ristretto, da -1,5° a 0,5° rispetto all’orizzonte). Per ottenere un adeguato livello di luminanza in questa direzione, si devono privilegiare le direzioni di incidenza della luce molto radenti, capaci di generare verso il conducente una luminanza elevata grazie alla riflessione del manto stradale e in particolare alla sua componente speculare.
Il solido fotometrico di un apparecchio stradale avrà pertanto una forma simmetrica molto aperta, con il massimo di intensità per angoli molto elevati; allo stesso modo, per angoli troppo elevati, un’intensità molto elevata sarebbe causa di fenomeni di abbagliamento. Per questo motivo la curva fotometrica ottimale si presenta come simmetrica al piano longitudinale della strada, con intensità massime comprese fra i 65° e i 75° rispetto alla verticale e intensità molto ridotte oltre i 75° – 80°.
Lungo la direzione trasversale alla strada, la curva fotometrica è invece asimmetrica,  con direzione prevalente del flusso verso la strada nel caso l’installazione lungo il bordo strada.

La forma della curva fotometrica è importante per capire in modo intuitivo il comportamento dell’apparecchio che stiamo analizzando.
Nel caso di apparecchi destinati all’illuminazione stradale, è molto importante che la curva fotometrica invii la luce solo nelle direzioni interessate (lungo l’asse della strada e non al di fuori di essa) e con le giuste intensità luminose (distribuita la più uniformemente possibile). Risulta infatti evidente che, se vogliamo puntare all’installazione di un minor numero di apparecchi, questi dovranno “allargare” il più possibile il fascio luminoso. Per “allargare” si intende, riferendosi al piano (C0-C180 del disegno nella precedente pagina), inviare lateralmente molta luce, quindi con elevata intensità. Sulla verticale il livello di luce necessario è inferiore perché, come visto in precedenza, al fine di mantenere una illuminazione uniforme, la legge dell’inverso del quadrato impone una drastica riduzione dell’intensità luminosa.
Sul piano C90-C270 risulta importante prevedere maggiori intensità luminose verso il lato strada (comprese fra 0° e 90°).
Generalmente elevati coefficienti di uniformità portano a migliori risultati in termini di percezione visiva, pertanto strade con minore intensità luminosa ma con migliori parametri di uniformità sono senz’altro da preferirsi a vie molto luminose con scarsa uniformità. Inoltre, per evitare un’installazione su due lati della carreggiata o il ricorso a sbracci, si lavora sull’ottica in modo tale da garantire un’asimmetria che spinga la luce, oltre che lateralmente (destra e sinistra), anche in profondità (avanti). L’introduzione di questa ulteriore asimmetria ha consentito di riportare l’apparecchio sul bordo della carreggiata, come la classica applicazione su palo diritto.
La soluzione “testa palo” è da preferire alle installazioni su sbraccio, in quanto meno problematiche dal punto di vista manutentivo.
Nella scelta di apparecchi più efficienti rimane prioritaria la forma della curva sul piano C0-C180. La curva ideale dovrebbe avere un intensità luminosa verso il basso sufficiente, per ottenere il livello di illuminamento richiesto, poi ad angoli sempre più elevati l’intensità dovrà aumentare sempre più, infatti, è necessaria più luce mano a mano che aumenta la distanza tra la sorgente luminosa e la superficie, non dimenticando che l’inclinazione della luce aumenta sempre più incrementando ulteriormente la necessità di più luce. Verso inclinazioni di più o meno 70° è necessario che l’emissione della luce cessi. E’ importante che crolli molto rapidamente, il cosiddetto taglio netto della luce, meglio conosciuto come cut-off. L’emissione di intensità luminose oltre tali angolazioni non è più efficace e può risultare controproducente per l’effetto di abbagliamento procurato verso gli osservatori.

I due seguenti diagrammi danno un’indicazione delle forme ottimali che dovrebbero avere le curve isolux di un apparecchio di illuminazione stradale (con installazione su lato strada):

NM

PS

Ai fini della limitazione dell’abbagliamento può risultare utile tenere a mente la classificazione degli apparecchi in funzione della classificazione CIE 1977 degli apparecchi stradali in funzione della direzione di intensità massima e della intensità emessa oltre gli 80° (che generalmente viene indicata sulle specifiche degli apparecchi di illuminazione).

cutoff Da quanto detto in precedenza appare ovvio che gli apparecchi che producono minore abbagliamento risultano gli apparecchi cut-off .

5) Controllo del flusso luminoso verso l’alto

Il fenomeno comunemente indicato col termine “inquinamento luminoso”, in realtà dovrebbe venir chiamato “dispersione del flusso luminoso verso l’alto”.
Per quanto non sia dannoso, si tratta di un fenomeno che può essere fastidioso, in particolare in vicinanza degli osservatori astronomici, oltre che a limitare fortemente la quantità di luce utile che raggiunge il piano illuminato. Si cerca pertanto di ridurlo al minimo riducendo le intensità luminose emesse per angoli superiori a 90° rispetto alla verticale: gli apparecchio cut-off rispondono a questi requisiti e sono stati pertanto presi a modello nelle indicazioni delle varie leggi regionali in materia di inquinamento luminoso come apparecchio da installare in ambito stradale.
In realtà questo accorgimento non è comunque sufficiente, in quanto (soprattutto in ambito urbano) gran parte del flusso luminoso verso l’alto è dovuto alla riflessione del manto stradale e dalle altre superfici investite dalla luce: il dibattito in materia è ancora vivo e si assiste periodicamente a controversie fra le varie “fazioni” che vi prendono parte.
Non è questo l’ambito più appropriato per discutere di questa questione: ci si limita solamente a prendere atto che ormai la richiesta di apparecchi cut-off è presente in tutte le legislazioni regionali in materia.

6) Apparecchi a LED per illuminazione stradale

Spesso gli apparecchi tradizionali prevedono una certa possibilità di modificare le caratteristiche di emissione grazie a diverse posizioni di montaggio della lampada rispetto al riflettore, alle quali corrispondono solidi fotometrici con caratteristiche diverse: lo spostamento verticale da luogo a solidi fotometrici più o meno aperti in senso longitudinale rispetto alla strada, mentre lo spostamento orizzontale dà luogo a solidi più o meno asimmetrici in senso trasversale.
Ovviamente questa possibilità resta preclusa ad un apparecchio a LED, per i quali i produttori devono prevedere tanti modelli diversi per ogni curva fotometrica desiderata (e che quindi sono vincolati all’installazione prevista dal progetto illuminotecnico, senza poter essere spostati in situazioni differenti).
Questo limite incide in maniera pesante sulle possibilità di prefabbricazione delle componenti e quindi sui costi. Per ovviare a questo inconveniente e garantire al tempo stesso un’ottima resa i produttori di apparecchi a LED adottano le seguenti strategie:

  1. la prima soluzione consiste nel predisporre una piastra di LED in cui ognuno di questo abbia una diversa inclinazione, che possa portare ad un “mosaico” ottimale a terra; questa soluzione consente di sfruttare al massimo le potenzialità dei LED, senza ridurre l’intensità con lenti correttive, ma ovviamente è molto dispendiosa, in quanto ogni piastra deve essere un pezzo unico appositamente sagomato con diverse inclinazioni all’interno. Inoltre ogni diversa configurazione dell’ottica va pensata come un nuovo “pezzo” unico da mettere in produzione, con ricadute economiche notevoli poiché è possibile serializzare solo un discreto numero di configurazionigpe
  2. la seconda soluzione, più economica, consiste nel predisporre diverse file di LED su una piastra “standard” orizzontale e successivamente applicare a questi differenti micro-lenti, che hanno il compito di diffondere la luce in modo appropriato; il prezzo contenuto è dovuto alla grande flessibilità data dall’utilizzo di diverse lenti applicate su una piastra di base comune a tutti i modelli (questo consente una grande standardizzazione dei pezzi). Lo scotto che si paga è quello di una riduzione del flusso luminoso, dovuta all’applicazione di lenti sopra ogni LEDruud

7) Prestazioni: rendimento e flusso luminoso verso il basso

Oltre alla caratterizzazione della modalità di distribuzione della luce, uno dei parametri da prendere in considerazione è la capacità di un apparecchio di distribuire il flusso delle lampade con il minimo di perdite dovute all’assorbimento da parte del riflettore o ad altri fattori.
Il rendimento esprime il rapporto fra il flusso emesso dall’apparecchio e  il flusso emesso dalle lampade con cui l’apparecchio è equipaggiato (ed è quindi un valore compreso fra 0 e 1).
Ad esempio, un rendimento del 90% significa che se la lampada equipaggiata emette 10000 lm, in realtà l’apparecchio (vuoi per rifrazioni interne, perdite dovute alle ottiche, ecc…) emette 9000 lm.
Il rendimento esprime unicamente un rapporto di efficienza dell’apparecchio (in pratica esplicita le “perdite” di flusso) ma non esprime la “direzione” del fascio luminoso.
Generalmente per un apparecchio di illuminazione stradale è fondamentale che tutto il flusso sia rivolto verso la metà inferiore della sfera luminosa (e questo è garantito ad esempio dal rispetto delle norme contro l’inquinamento luminoso) e per questo motivo, al rendimento si preferisce il rendimento di flusso luminoso rivolta verso il basso, chiamato brevemente DLor.
Ad esempio, riferendoci sempre ad una lampada che emette 10000 lm, un DLor pari all’ 80% significa che l’apparecchio di illuminazione emetterà un flusso luminoso totale diretto verso il basso pari a 8000 lm.
Un apparecchio tradizionale di illuminazione di ultima generazione che monta lampade al sodio alta pressione presenta valori di DLor prossimi all’80%: questo significa che equipaggiato con una sorgente da 100W SAP da 10000 lm riversa nell’emisfero inferiore 8000 lm.
Ovviamente il rendimento non indica “come” viene illuminata la superficie di riferimento e per questo non è un parametro che da solo può definire le prestazioni di un apparecchio di illuminazione.

Per valutare il DLor di un apparecchio utilizziamo ancora QLumEdit: nella sezione Luminaire vengono indicate le percentuali di flusso luminoso orientato verso il basso ed il rendimentorendimento
In questo caso si può vedere come l’apparecchio abbia un rendimento dell’ 80% e convogli tutto il flusso luminoso verso il basso (100% indicato nella tabella). Per calcolare il fattore DLor basta semplicemente moltiplicare fra loro questi due fattori ed ottenere così il rendimento del flusso luminoso verso il basso.

8 ) Efficienza luminosa globale degli apparecchi

A questo punto siamo in grado di valutare l’efficienza luminosa globale degli apparecchi e quindi confrontare la loro bontà dal punto di vista quantitativo (si suppone di seguito che ogni apparecchio preso in esame risponda correttamente al compito visivo assegnatoli).
L’efficienza luminosa viene calcolata come rapporto fra flusso luminoso emesso e potenza totale assorbita dall’apparecchio.
Il valore del flusso luminoso in questo caso sarà quello realmente uscente dall’apparecchio, calcolato come sopra tramite il coefficiente DLor.
La potenza totale assorbita invece è quella comprensiva di lampade, alimentatore, perdite, ecc.. Questa corrisponde alla potenza che si potrebbe leggere “a monte” dell’apparecchio se andassi a misurarla mentre sta funzionando. Per stimare la potenza assorbita, qualora si abbia come valore di riferimento unicamente la potenza assorbita dalle lampade, occorre considerare che un alimentatore elettronico di nuova generazione assorbe circa il 7%-15% in più rispetto a questo dato per le lampade a scarica (ovviamente più la potenza delle lampade aumenta, più aumenta in percentuale la potenza assorbita dall’alimentatore e le perdite correlate). Per le lampade al sodio, abbiamo circa 75W totali per una lampada da 70W, 107W totali per una lampada da 100W, ecc..
Per le lampade al LED invece si può stimare che un alimentatore elettronico per queste lampade assorba circa il 13%-18% in più rispetto alla potenza dichiarata delle lampade, poichè non sempre il fattore di potenza è superiore a 0,95 come per le lampade a scarica.
In questo caso sarebbe quindi più corretto parlare di potenza apparente (VA) dell’apparecchio ed è questa quindi che verrà presa in considerazione di seguito.

A questo punto siamo in grado di calcolare l’efficienza luminosa globale degli apparecchi di illuminazione stradale.
Ad esempio, un apparecchio tradizionale che monta una lampada SAP di ultima generazione a 100W (di flusso luminoso pari a 10700lm), con alimentatore elettronico e DLor pari al 80% (consideriamo fra i migliori apparecchi in circolazione) avrà un rendimento globale di:

10700*80%/107 = 80 lm/W

Prendendo invece i dati di una famosa ditta produttrice di  apparecchi LED abbiamo che un apparecchio che monta 100 LED alimentati a 350mA produce un flusso luminoso pari a 10000lm ed un consumo di 100*1,1W=110W+alimentatore=127W.  Dagli eulumdat si può leggere un DLor pari a 85,7% (è un apparecchio con microottiche, come indicato sopra). In questo modo possiamo calcolare un rendimento globale di:

10000*85,7%/127 = 67 lm/W

Non dissimili sono i dati di un’altrettanto famosa ditta che per un apparecchio a 43 LED alimentati a 350mA dichiara un flusso luminoso di 4376 lm per un consumo totale di 72W e un DLor pari al 100% (in questo caso è un apparecchio senza microottiche). In questo modo abbiamo un rendimento globale simile al precedente:

4376*100%/72= 61 lm/W

Invito tutti a fare delle prove per verificare quanto ho detto.

Se la matematica non è un opinione, a parità di qualità della distribuzione della luce (tutti e tre gli apparecchi indicati sopra consentono di ottenere luminosità ed uniformità sul manto stradale) risulta che gli apparecchi tradizionali forniscono comunque un 30% di luce in più rispetto agli apparecchi a LED.
Guarda caso il ricorso allo sconto di categoria illuminotecnica (sbandierato da tutti i produttori di apparecchi a LED) consente appunto di ridurre di circa il 33% il flusso luminoso necessario per illuminare correttamente una strada (e quindi parificare i risultati).

9) Conclusioni (provvisorie)

Come ho già avuto modo di affermare, i LED sono una tecnologia molto promettente, che ha grandi possibilità (si parla di limiti superiori ai 400 lm/W). Molto presto, quando LED a 140 lm/W saranno disponibili a prezzi commerciali, la superiorità di questa tecnologia sarà manifesta.

Oggi come oggi però per l’illuminazione stradale non si hanno ancora condizioni accettabili che possano garantire la giusta illuminazione ed al contempo un risparmio energetico rispetto agli standard degli apparecchi di illuminazione tradizionali (ma di questo parlerò nella terza parte di questo lungo articolo).

Chiunque affermi il contrario sarebbe pregato di fornire una dimostrazione più che attendibile dei propri risultati (sulla linea che ho seguito io per la dimostrazione delle varie caratteristiche dei LED): è molto facile dire “io posso farti risparmiare il 50%” e poi elencare una serie di caratteristiche estrapolate in maniera del tutto arbitraria dai dati ufficiali.
Il metodo per calcolare l’efficienza, il consumo e la qualità di un apparecchio a LED è stato indicato in questi due articoli e spero pertanto che siano di aiuto ai tecnici che vogliano capirci qualcosa nel gran polverone sollevato in questi ultimi tempi.

S.V.B.E.E.Q.V.

Matteo Seraceni

L’articolo continua con un intermezzo.