Wilfing architettura: oltre il senso del luogo

Come già altri prima di me, anch’io ho partecipato volentieri all’iniziativa di Salvatore d’Agostino, consistente in un’analisi ad ampio spettro delle preferenze architettoniche di numerosi blogger italiani che si occupano della materia.
Le domande poste erano due:

  • Qual è l’architetto noto che apprezzi e perché?
  • Qual è l’architetto non noto che apprezzi e perché?

Non mi voglio soffermare sulla pregnanza e sull’ appropriatezza di queste domande (di cui è già stato discusso a lungo su Wilfing Architettura); quello che vorrei invece sottolineare è il fatto che d’Agostino sia riuscito a dimostrare che il panorama del blog architettonico in Italia non è poi così morto ed inutile come spesso si crede.

WA HEADER 2Forse non si è riuscito ad innescare quello sperato corto circuito di idee da cui potessero emergere nuove discussioni sullo stato dell’architettura in Italia, ma il tentativo è meritevole e di certo migliore delle controparti patinate che a suon di euro continuano a riproporre articoli inutili e stucchevoli.
Per chi fosse interessato all’intero excursus di questo dibattito, consiglio di leggersi quindi OLTRE IL SENSO DEL LUOGO.

Quanto alle mie risposte ci terrei a precisare che il mio animo da provocatore mi porta spesso ad abusare dei termini di riferimento e quindi mi scuso fin da subito per il tono polemico delle mie risposte (visto che ho citato architetti che odio) e per l’apparente scostamento sulla scelta della seconda risposta (che comunque rimane aderente alla domanda).
Ci tengo a riportare le risposte date anche sul mio blog nella speranza di poter discutere anche qui di ciò che a mio parere è di importanza fondamentale nell’architettura.

1) Architetto noto che apprezzo: Renzo Piano

Piano è riuscito negli anni a creare attorno a se un gruppo di lavoro impeccabile: ogni realizzazione appare perentoria, senza sbavature, corretta sotto ogni punto di vista, dall’inserimento urbanistico al design degli interni; possiede una padronanza assoluta dei mezzi tecnologici che l’architettura offre e cura ogni progetto fin nel minimo dettaglio (difficilmente pioverà all’interno dei suoi edifici; ogni riferimento è puramente casuale).

Io odio Renzo Piano.

Penso sia lecito apprezzare e contemporaneamente odiare una persona (e proprio per questo ho scelto Renzo Piano).
Ciò che colpisce nel repertorio del suo Building Workshop (studio di architettura risultava troppo plebeo) è l’assoluta eterogeneità dei progetti: sono diversi luoghi, forme, materiali.
L’eclettismo stilistico ha come matrice di fondo una profonda attenzione per il dettaglio tecnico e per l’ambiente circostante: in tutti i casi non è la personalità dell’architetto a prevalere sull’ambiente, ma è questo che sembra inglobare e definire le opere.
E’ lo stesso Piano a definire la sua posizione: “La maggior parte di loro [gli architetti “tradizionali”] vive nel mito della falsa creatività: sono dei sensitivi, ma non hanno nessun potere contrattuale nei confronti della società. Sono chiamati a soddisfare bisogni fasulli o marginali. […] Ma un architetto a cosa serve? Se ne può far benissimo a meno[1] (non vado oltre nella citazione, perché Piano ha la straordinaria capacità di essere altamente soporifero nei suoi discorsi). Egli mette a disposizione un cospicuo patrimonio di cultura tecnologica con cui poter tradurre in tecnologie sempre più adeguate le richieste provenienti dalla società ma, facendo questo, deve mettere da parte il suo bagaglio culturale, la sua riconoscibilità in quanto “creatore di forme”. Per Piano ogni professionista deve essere un coordinatore, un general-manager più che un architetto vero e proprio.
Non è un’affermazione stupida o una provocazione e penso dovrebbe far riflettere chi si occupa di architettura e pensa che possa bastare creatività e spirito di iniziativa per essere bravi professionisti.
L’architetto “demiurgo” ha fallito su tutti i fronti (lo possiamo constatare nell’acceso dibattito contro le archistar e nelle realizzazioni fallimentari di molti volti noti) ed occorre quindi ripensare profondamente alla professione.
Le soluzioni prospettate da Piano hanno sono però opere “a se stanti”, che non inaugurano nuovi filoni di ricerca né portano avanti particolari problematiche architettoniche del passato.
Valga per tutti il Beaubourg: questo incredibile ammasso geigheriano di tubi e lamiere, questa specie di astronave Borg piovuta dal cielo e radicatasi nel centro di Parigi, dialoga egregiamente con la piazza ed il contesto storico, è funzionale ed al tempo stesso rivoluzionaria. E’ una “machine à esposer”, un prodotto tecnologico figlio delle migliori utopie degli Archigram: proprio perché intrinsecamente tecnologico risulta così democratico, slegato da ogni discorso formale di appartenenza a qualsivoglia classe dominante.

Il Centre Pompidou a Parigi

Il Centre Pompidou a Parigi

Ha inoltre il pregio di essere l’unica opera contemporanea (od almeno una delle poche) dopo la Tour Eiffell ad essere amata dai parigini (ovviamente, così come per la torre, dopo un iniziale periodo di proclami ed ingiurie).
Il Centre Pompidou è certamente legato al filone di ricerca Hi-tech, ma è di così alta fattura che non è riproducibile altrove, è un punto fermo nella ricerca architettonica: come afferma lo stesso Piano, non è un costrutto tecnologico, una fabbrica seriale, ma “un gigantesco oggetto artigianale, fatto a mano, pezzo per pezzo[2] (e la dimostrazione è data appunto del fatto che tante parti che compongono l’edificio sono pezzi fatti su misura).
Tutti i progetti dell’architetto genovese sono altamente tecnologici, ma al tempo stesso “artigianali”: il suo sforzo di semplificazione e razionalizzazione dei problemi si traduce nell’estrema flessibilità ed “apertura” delle opere (secondo la formula del “work in progress”) e al tempo stesso nell’impiego di materiali eterogenei, leggeri e relativamente “poveri” (probabilmente questa sensibilità verso i materiali e l’artigianalità deriva direttamente dall’esperienza familiare).
La qualità di queste architetture non risiede quindi nella ricerca formale/architettonica, ma nella grande capacità “ambientale” e spaziale che riescono a comunicare: il NEMO di Amsterdam non è solo uno spazio espositivo ma anche parte integrante della morfologia urbana, una collina artificiale da cui poter osservare lo skyline della città; il centro culturale Jean-Marie Tjibaou’ a Noumèa si pone come spazio simbolico e archetipico all’interno di un vasto intervento architettonico.

Il NeMo ad Amsterdam

Il NeMo ad Amsterdam

La grandezza ed il limite di Renzo Piano sta nel fatto che ogni opera non appare mai perfettibile e – valga per tutti l’esempio del Beaubourg – non può costituire un modello paradigmatico riproducibile altrove (soprattutto per i professionisti che non possono contare su studi di grandi dimensioni); questa architettura esibisce un controllo assoluto dei mezzi e delle tecniche e purtroppo proprio per questo insegna poco o niente, non fornisce idee o spunti progettuali.
Ogni progetto è un fatto compiuto a se stante che non delinea via d’uscita possibili all’empasse in cui si trova oggi l’architettura.

Credo inoltre che l’ evoluzione di Piano espressa dal Beaubourg al NeMo rappresenti in qualche maniera anche l’evoluzione dello stato dell’architettura contemporanea.
Dall’assenza di qualsiasi elemento connotativi del primo (secondo quella che potremmo chiamare corrente Hi-Tech), si è passati alla perfetta assimilazione di contenuti narrativi da parte del secondo; è quella che viene chiamata “la terza ondata”: il Nemo, con la sua forma di vascello ancorato nel vecchio porto su di un terreno artificiale, narra la pratica olandese di edificare territori sottraendo spazio all’ acqua.
A mio avviso significativo è anche il fatto che entrambe queste opere siano opere “incompiute”, in quando al Beaubourg manca la “pelle” esterna inizialmente prevista ed al NeMo mancano le feritoie poste alla sommità della struttura che avrebbero dovuto fornire luce artificiale al complesso: è difficile oggi come oggi gestire idee progettuali così grandi senza offrire una grande flessibilità di progetto (proprio per questo non mi stupisco che la Hadid disegni tanto e realizzi poco).

2) Architetto non noto che apprezzo: Le Corbusier

Come architetto non noto avrei voluto scegliere me stesso: non mi conosce nessuno ed ho avuto pochissime commissioni; ma a me piace quello che faccio e credo molto nelle mie idee: a volte credo addirittura che i miei progetti siano belli. Poi mi sono ricordato di non essere un architetto…
La domanda chiedeva qual è l’architetto non noto che apprezzo. Bene, l’architetto non noto che apprezzo è l’architetto Le Corbusier.
A questo punto sicuramente penserete che sono completamente uscito di testa (e forse è così: sapete, lo stress matrimoniale può portare ad alterazioni permanenti nell’organizzazione sinaptica del proprio cervello).

Non è una provocazione: ho voluto sottolineare la dizione “architetto” perché, parlando con colleghi ed amici, mi sono accorto che tanti scherniscono la sua opera senza essere mai andati di persona a visitarne una. Quello che permane nella coscienza comune è la macchietta descritta da Tom Wolfe in “Maledetti architetti”: l’intellettuale egocentrico con gli occhialini tondi, pontificatore, assolutista ed insopportabile. La recente vicenda dei Five Architects e del dibattito fra “bianchi” e “grigi” non ha fatto altro che acuire questa immagine.
Morto l’uomo rimangono però le opere e penso che a queste unicamente dovremmo guardare, senza interporre nei nostri giudizi lo schermo deformante della biografia e dei proclami di chi le ha costruite (anche se è stato lo stesso Le Corbusier ad inaugurare la figura dell’ ”architetto demiurgo”, dello scrittore propagandista): il contributo più significativo da lui apportato all’architettura non è negli scritti, nei proclami, nei disegni, ma nella straordinaria inventiva delle sue opere.
Anch’io devo ammettere di aver fatto parte per diverso tempo dei suoi detrattori, poi la visita al padiglione dell’Esprit-Nouveau ricostruito a Bologna ha rimesso in discussione le mie convinzioni, fra cui quella di considerare insana la passione per Le Corbusier del mio professore di storia dell’architettura e fautore di questa installazione (Giuliano Gresleri). Non so se avete presente il padiglione: è un quadrato con due ali semicircolari in cui è stato ritagliato un cerchio per lasciarvi crescere un albero in mezzo. Le foto e i disegni delle piante e dei prospetti delineano uno dei tanti prototipi razionalisti di abitazione minima.

Il padiglione dell' Esprit Nouveau a Bologna

Il padiglione dell' Esprit Nouveau a Bologna

Visitandolo di persona invece ci si rende conto di come la qualità spaziale del progetto emerga in maniera preponderante, sia nei confronti della realizzazione formale che di quella eminentemente metaprogettuale.
Lo studio sugli “standard” portato avanti dall’architetto svizzero, che risponde a motivi di efficienza, ordine e bellezza propri della realtà industriale riesce a coniugarsi con realizzazione architettonica che non ha niente di asettico e che si presta alle più svariate declinazioni.
In un’ottica tradizionalista, parrebbe che l’alloggio minimo derivato dallo studio dei tipi edilizi, come quello proposto da Klein, possa declinarsi in maniera più conforme al benessere abitativo; ci si accorge invece che tali cellule non fanno altro che ridurre e sminuire i valori architettonici e proporre composizioni sterili.
Il prototipo della maison Citrohan invece riesce a declinarsi in tanti modi diversi, dal padiglione dell’ Esprit Nouveau all’ Unitè d’habitation, proprio perché al di sotto dello studio intellettuale e degli interessi artistici si cela una grande mano architettonica. Il progetto dell’alloggio, partendo dalla standardizzazione industriale, viene sviluppato da un’unica personalità che avoca a sé l’intero ciclo produttivo e ne controlla la forma con un fine che trascende il dato funzionale e riconduce ogni cosa all’ambito della realizzazione artistica.
Visitando villa Savoye ci si accorge che la promenade architecturale non è semplicemente un espediente architettonico, ma un’esperienza unica ed irripetibile (paragonabile in tutto e per tutto alle realizzazioni di un’altra mano felice e completamente estranee al mondo di Le Corbusier, quella di Gaudì): non a caso la rampa costituisce un elemento plastico costantemente visibile sia per chi guarda all’interno sia per chi guarda dalla terrazza-giardino del primo piano.

La Villa Savoye

La Villa Savoye

Il movimento moderno ha dato primaria importanza alla connotazione dello spazio architettonico, ma il dibattito attuale sembra aver perso di vista questa istanza, soffermandosi unicamente sulle componenti stilistico-formali dell’architettura.

Come detto sopra, le architetture di Le Corbusier andrebbero rivalutate sotto tutti gli aspetti, al fine di coglierne la qualità spaziale e vedere come la sua architettura non si possa ridurre solo a pareti bianche e pilotis: allo stesso modo la poca attenzione dedicata ad esempio dai Five Architects alle opere dell’ultimo periodo del maestro dimostrano come il fraintendimento di fondo sia consolidato.
Il salto compiuto all’epoca del passaggio dalla poetica razionalista del purismo all’informale neo-espressionismo di Ronchamp non può venire spiegato solo su base estetica e senza prendere in considerazione l’evoluzione spaziale delle opere precedenti: fin dai tempi dei sui viaggi in Oriente Le Corbusier si accorge che le città in ogni tempo e luogo sono caratterizzate da una “unità” sorprendente resa manifesta da standards precisi e ripetibili.
La storia non è dunque un grande calderone da cui estrarre a piacimento gli elementi che più sono confacenti alle varie architetture. A questo proposito Zevi afferma che: “Le Corbusier studiò la storia in profondità, non nei falsi manuali e precetti Beaux-Arts, ma viaggiando per anni in Oriente, Grecia e Italia, e scoprendo cosa c’era di nuovo, di moderno nel passato. Il linguaggio dei «volumi puri sotto la luce» deriva dal cubismo quanto dall’eredità ellenica. Quando Corbu rigetta questa poetica, a Ronchamp, la conoscenza dei castelli medievali francesi lo aiuta a trovare nuove espressioni. Chiunque l’abbia conosciuto, e abbia passeggiato con lui lungo le calli di Venezia, non dimenticherà mai la sua straordinaria sensibilità per il tardo-antico, per il carattere narrativo della città lagunare. […] Il disprezzo per il passato è stato un atteggiamento alla moda dell’avanguardia, ma i maestri si sono sempre nutriti di storia.[3]
Solo alla luce di un costante raffronto con la storia dell’architettura è possibile capire le varie declinazioni dell’opera di Le Corbusier e quindi la sua inesauribile capacità creativa.

S’intende, anche se non è stato detto in maniera esplicita, che odio pure Le Corbusier (ed in questo ho perfetta consonanza di idee col prof. Saggio sul fatto che occorra odiare per sapere poi ideare); nondimeno lo apprezzo.
La mia dissertazione sullo svizzero era rivolta ad esaltarne la capacità di costruttore di “spazi interni”, tema fondamentale del Movimento Moderno e che oggi spesso passa in secondo piano. Per questo motivo mi sono sentito di accostare Le Corbusier a Gaudì, poiché entrambi sono riusciti a trasformare lo spazio interno in “spazio vitale” (in alcune opere ovviamente, non in tutte) al di là di ogni “Kunstwollen” contraddistinta da stili diversi.
Apprezzerei una rilettura delle opere di Le Corbusier alla luce di valori spaziali e non solo plastici (anche se lo stesso Corbu ha battuto il martello soprattutto sui secondi): la mia risposta è dunque solo uno spunto per proporre una rinnovata “Raumgestaltung” che aiuti a considerare più attentamente le qualità di vita negli spazi costruiti.
Quello che vorrei rimarcare e che ho tentato di spiegare nel mio intervento è che una bella forma non sempre porta ad un buono spazio; osservare qualcosa da fuori è assolutamente diverso dal viverci dentro (ma con questo non intendo considerato unicamente spazi “vivibili”, nella riduzione proposta da Zevi; lo spazio di cui parlo è quanto di più generale si possa assumere).
A chiosa vi lascerei con una citazione di Wright: “fu Lao-Tze, mezzo millennio avanti Cristo, il primo ch’io sappia ad affermare che la realtà di un edificio non risiede nelle quattro pareti e nel tetto, ma nello spazio racchiuso, nella spazio in cui si vive”.

3) Conclusioni (provvisorie)

Ho scelto volutamente due architetti che si sono rapportati costantemente con la tecnologia propria del loro tempo: Renzo Piano considera il discorso tecnologico da un punto di vista “etico”, come possibilità di soddisfare in maniera adeguata i bisogni della società di volta in volta sempre diversi; per Le Corbusier invece la tecnologia assume una valenza “estetica”, connaturata al concetto stesso di “standard”.
Credo che oggi non sia più possibile prescindere dall’influenza dello sviluppo tecnologico nella pratica architettonica.
Ma, come già ho affermato a proposito dei lavori di Piano, la tecnologia di per sè è sterile, senza una mano che sappia dirigerla in maniera adeguata (soprattutto all’interno di un panorama attuale così disomogeneo).

Per questo motivo sono convinto che la rilettura dello spazio come elemento fondante dell’architettura sia l’unico valore da cui poter ripartire per fondare un dibattito architettonico serio; occorre deviare l’attenzione dal sensazionalismo estetico alla qualità della “vita” all’interno delle stesse architetture.

[1] da un’intervista a “Il sole 24 ore”
[2] da M. Dini “Renzo Piano, progetti e architetture 1964-1983” Electa – Milano
[3] dal discorso “Architecture versus Historic Criticism”, tenuto al RIBA il 6 dlcembre 1983

S.V.B.E.E.Q.V.

Matteo Seraceni

6 comments

    1. Grazie.
      All’inizio ero molto incerto sulla scelta, ma ripensando a quello che volevo scrivere (e leggendolo tutt’ora) mi rendo conto di come in realtà sia assolutamente azzeccata: spesso e volentieri mi ritrovo a parlare con persone che lodano Ronchamp senza nemmeno esserci stati (o, al contrario, dileggiare l’unité di Marsiglia senza averla mai vista); è un atteggiamento generalizzato quello di basare il proprio giudizio unicamente sulle rappresentazioni dell’oggetto (anzichè sull’oggetto vero e proprio).
      Senza voler tirare in ballo Platone e compagnia bella (non sono Lotito 🙂 ) devo ammettere che anch’io spesso mi sono ritrovato in questo inganno: probabilmente è dovuto al fatto che l’assiduità con cui ci confrontiamo con rappresentazioni architettoniche ci fa pensare di poter leggere un progetto unicamente dalle piante e dai prospetti.
      Valga per tutti l’uso ormai smodato di rendering per i nuovi edifici, soprattutto dall’alto, come se l’utente abituale viaggiasse con la Delorean modificata di “Ritorno al futuro” per tornare a casa…
      Visto che l’articolo aveva come titolo “oltre il senso del luogo” mi sembrava doveroso richiamare l’attenzione per un grande “costruttore” di luoghi (più che di forme architettoniche).

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      1. Matteo,
        è vero c’è molto rumore di fondo e poca conoscenza materica dell’architettura.
        L’inchiesta è stata ideata per fare il punto non definitivo sulla nostra cultura architettonica. Per conoscere archietti e luoghi poco battuti dalla critica IN. Per stimolare i blogger a fare uso ‘critico’ di uno strumento poco utilizzato a tale scopo. Per vedere che cosa succede su questo altrove telematico. Per leggere la complessità evitando la semplificazione mediatica. Per superare la tassonomia il vero delitto della critica accademica italiana. Per eliminare i giudizi e soprattutto i pregiudizi.
        Saluti,
        Salvatore D’Agostino

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  1. Salvatore, a me la tua inchiesta è piaciuta molto (meno alcuno risposte purtroppo…).
    Soprattutto per il fatto che condivido la tua idea di riuscire a spostare il dibattito sull’architettura quotidiana con cui ognuno di noi si trova a confrontarsi.
    Purtroppo, se la critica “ufficiale” vola sempre troppo in alto, molti blog volano decisamente troppo in basso…

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    1. —> Matteo,
      ti passo questa puntata di Melog 2.0 —> http://www.radio24.ilsole24ore.com/player/player.php?filename=090930-melog.mp3
      dove in sintesi discute dei blog e del loro fallimento.
      I blog hanno una latente potenzialità: raccontare la propria quotidianità abbandonando il sistema dei media.
      Wilfing Architettura ama stare tra l’alto e il basso evitando le imitazioni e le tautologie.
      Non ti crucciare esisteranno sempre i BLAG non possiamo farne a meno.
      Saluti,
      Salvatore D’Agostino

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      1. Ma io mi cruccio di più dell’esistenza di riviste come Casabella, che dopo grandi trascorsi, hanno perso gran parte del loro smalto o Wired, che presenta quel venditore di pentole di Cucinella come salvatore dell’architettura…
        Il fenomeno blog è talmente marginale che sarebbe come preoccuparsi delle formiche in un campo…

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